di Lori Wallach*, Le Monde Diplomatique
da www.micromega.net 27/1/2014
Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui
orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si
può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa
compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo
vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto
inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri. Esso
compariva già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli
investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai ventinove
stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(Ocse) (1).
Divulgato in extremis, in particolare da Le
Monde diplomatique, il documento sollevò un’ondata di proteste senza
precedenti, costringendo i suoi promotori ad accantonarlo. Quindici anni più
tardi, essa fa il suo ritorno sotto nuove sembianze. L’accordo di partenariato
transatlantico (Ttip) negoziato a partire dal luglio 2013 tra Stati uniti e
Unione europea è una versione modificata del Mai. Esso prevede che le
legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole
del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi,
sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una
riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti.
Secondo il calendario ufficiale, i negoziati non dovrebbero concludersi che
entro due anni. Il Ttip unisce aggravandoli gli elementi più nefasti degli
accordi conclusi in passato. Se
dovesse entrare in vigore, i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di
legge e legherebbero completamente le mani dei governanti. Impermeabile alle
alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, esso si applicherebbe per
amore o per forza poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con
il consenso unanime di tutti i paesi firmatari. Ciò
riprodurrebbe in Europa lo spirito e le modalità del suo modello asiatico,
l’Accordo di partenariato transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp),
attualmente in corso di adozione in dodici paesi dopo essere stato fortemente
promosso dagli ambienti d’affari.
Insieme, il Ttip e il Tpp formerebbero un impero economico capace di dettare le
proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di
tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione europea si
troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del
loro mercato comune.
Tribunali appositamente creati
Dato che mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile, i
negoziati intorno al Ttip e al Tpp si svolgono a porte chiuse. Le
delegazioni statunitensi contano più di seicento consulenti delegati dalle
multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori e
ai rappresentanti dell’amministrazione. Nulla deve sfuggire. Sono state date
istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni:
essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà
troppo tardi per reagire. In uno slancio di candore, l’ex ministro del commercio
statunitense Ronald («Ron») Kirk ha fatto valere l’interesse «pratico» di
«mantenere un certo grado di discrezione di confidenzialità (2)».
Ha sottolineato che l’ultima volta che la bozza di un accordo in corso di
formalizzazione è stata resa pubblica, i negoziati sono falliti – un’allusione
alla Zona di libero scambio delle Americhe (Ftaa), versione estesa dell’Accordo
di libero scambio nordamericano (Nafta). Il progetto, difeso accanitamente da
George W. Bush, fu svelato sul sito internet dell’amministrazione nel 2001. A
Kirk, la senatrice Elizabeth Warren ribatte che un accordo negoziato senza alcun
esame democratico non dovrebbe mai essere firmato (3).
L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato statunitense-europeo
all’attenzione del pubblico si comprende facilmente. Meglio prendere tempo prima
di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal
vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i
governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a
fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei
settori che in parte gli sfuggono ancora. Sicurezza
degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei
medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura,
diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture
pubbliche, immigrazione: non c’è una sfera di interesse generale che non passerà
sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato. L’azione
politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro
mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro. È
già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle
loro leggi, dei loro regolamenti e
delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi
vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario,
potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente
creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di
emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi.
L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei
trattati commerciali già in vigore. Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale
del commercio (Wto), ha condannato gli Stati uniti per le loro scatole di tonno
etichettate «senza pericolo per i delfini», per l’indicazione del paese
d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco
aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state
considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche
all’Unione europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il
suo rifiuto di importare organismi geneticamente modificati (Ogm).
La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp consiste nel permettere alle
multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica
avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale. Sotto un tale
regime, le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di
protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanzaattivate in
questo o quel paese reclamando danni e interessi davanti a tribunali
extragiudiziari. Composte da tre
avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca
mondiale e dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) sarebbero abilitate a
condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione
riducesse i «futuri profitti sperati» di una società. Questo
sistema «investitore contro stato», che sembrava essere stato cancellato dopo
l’abbandono del Mai nel 1998, è stato restaurato di soppiatto nel corso degli
anni. In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400
milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle
multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative
sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname ecc. (4).
Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso –
nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta
all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno
schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip
aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata, tenuto
conto degli interessi in gioco nel commercio transatlantico. Sul suolo
statunitense sono presenti tremilatrecento aziende europee con ventiquattromila
filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere,
un giorno o l’altro, riparazione per un pregiudizio commerciale. Un tale effetto
a cascata supererebbe di gran lunga i costi causati dai trattati precedenti. Dal
canto loro, i paesi membri dell’Unione europea si vedrebbero esposti a un
rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400
compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In
totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori
pubblici.
Ufficialmente, questo regime doveva servire inizialmente a consolidare la
posizione degli investitori nei paesi in via di sviluppo sprovvisti di un
sistema giuridico affidabile; esso avrebbe permesso di fare valere i loro
diritti in caso di esproprio. Ma l’Unione europea e gli Stati uniti non sono
esattamente delle zone di non-diritto; al contrario, dispongono di una giustizia
funzionale e pienamente rispettosa del diritto di proprietà. Ponendoli malgrado
tutto sotto la tutela di tribunali speciali, il Ttip dimostra che il suo
obiettivo non è quello di proteggere gli investitori ma di aumentare il potere
delle multinazionali.
Processo per aumento del salario minimo
Ovviamente gli avvocati che compongono questi tribunali non devono rendere
conto a nessun elettorato. Invertendo allegramente i ruoli, possono sia
fungere da giudici che perorare la causa dei loro potenti clienti (5). Quello
dei giuristi degli investimenti internazionali è un piccolo mondo: sono solo
quindici a dividersi il 55% delle questioni trattate fino a oggi. Evidentemente,
le loro decisioni sono inappellabili. I «diritti» che essi hanno il compito di
proteggere sono formulati in modo deliberatamente approssimativo, e la loro
interpretazione raramente tutela gli interessi della maggioranza. Come
quello accordato all’investitore di beneficiare di un quadro normativo conforme
alle sue «previsioni» – per il quale va inteso che il governo si vieterà di
modificare la propria politica una volta che l’investimento ha avuto luogo.
Quanto al diritto di ottenere una compensazione in caso di «espropriazione
indiretta», ciò significa che i poteri pubblici dovranno mettere mano al
portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un
investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende
locali.
I tribunali riconoscono anche il diritto del capitale ad acquistare sempre
più terre, risorse naturali, strutture, fabbriche, ecc. Non vi è nessuna
contropartita da parte delle multinazionali: queste non hanno alcun obbligo
verso gli Stati e possono avviare
delle cause dove e quando preferiscono. Alcuni investitori hanno una concezione
molto estesa dei loro diritti inalienabili. Si è potuto recentemente vedere
società europee avviare cause contro l’aumento del salario minimo in Egitto o
contro la limitazioni delle emissioni tossiche in Perú, dato che il Nafta serve
in quest’ultimo caso a proteggere il diritto a inquinare del gruppo statunitense
Renco (6). Un altro esempio: il gigante delle sigarette Philip Morris,
contrariato dalla legislazione antitabacco dell’Uruguay e dell’Australia, ha
portato i due paesi davanti a un tribunale speciale. Il
gruppo farmaceutico americano Eli Lilly intende farsi giustizia contro il
Canada, colpevole di avere posto in essere un sistema di brevetti che rende
alcuni medicinali più accessibili. Il fornitore svedese di elettricità
Vattenfall esige diversi miliardi di euro dalla Germania per la sua «svolta
energetica», che norma più severamente le centrali a carbone e promette
un’uscita dal nucleare.
Non ci sono limiti alle pene che un tribunale può infliggere a uno Stato a
beneficio di una multinazionale. Un anno fa, l’Ecuador si è visto condannato a
versare la somma record di 2 miliardi di euro a una compagnia petrolifera (7).
Anche quando i governi vincono il processo, essi devono farsi carico delle spese
giudiziarie e di varie commissioni che ammontano mediamente a 8 milioni di
dollari per caso, dilapidati a discapito del cittadino. Calcolando ciò, i poteri
pubblici preferiscono spesso negoziare con il querelante piuttosto che perorare
la propria causa davanti al tribunale. Lo stato canadese si è così risparmiato
una convocazione alla sbarra abrogando velocemente il divieto di un additivo
tossico utilizzato dall’industria petrolifera.
Eppure, i reclami continuano a crescere. Secondo la Conferenza delle Nazioni
unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), a partire dal 2000 il numero di
questioni sottoposte ai tribunali speciali è decuplicato. Se il sistema di
arbitraggio commerciale è stato concepito negli anni ’50, non ha mai servito gli
interessi privati quanto a partire dal 2012, anno eccezionale in termini di
depositi di pratiche. Questo boom ha creato un fiorente vivaio di consulenti
finanziari e avvocati d’affari. Il progetto di un grande mercato
americano-europeo è sostenuto da lungo tempo da Dialogo economico transatlantico
(Trans-atlantic business dialogue, Tabd), una lobby meglio conosciuta con il
nome di Trans-atlantic business council (Tabc). Creata nel 1995 con il
patrocinio della Commissione europea e del ministero del commercio americano,
questo raggruppamento di ricchi imprenditori
è impegnato per un «dialogo» altamente costruttivo tra le élite economiche dei
due continenti, l’amministrazione di Washington e i commissari di Bruxelles. Il
Tabc è un forum permanente che permette alle multinazionali di coordinare i loro
attacchi contro le politiche di interesse generale che restano ancora in piedi
sulle due coste dell’Atlantico. Il suo obiettivo, pubblicamente dichiarato, è di
eliminare quelle che definisce come «discordie commerciali» (trade irritants),
vale a dire di operare sui due continenti secondo le stesse regole e senza
interferenze da parte dei poteri pubblici.
«Convergenza regolativa» e «riconoscimento reciproco» fanno parte dei quadri
semantici che Tabc brandisce per incitare i governi ad autorizzare i prodotti e
i servizi che trasgrediscono le legislazioni locali. Ma invece di auspicare
un semplice ammorbidimento delle leggi esistenti, gli attivisti del mercato
transatlantico si propongono senza mezzi termini di riscriverle loro stessi. La
Camera americana di commercio e BusinessEurope, due tra le più grandi
organizzazioni imprenditoriali del pianeta, hanno richiesto ai negoziatori del
Ttip di riunire attorno a un tavolo di lavoro un campionario di grossi azionisti
e di responsabili politici affinché questi «redigano insieme i testi di
regolamentazione» che avranno successivamente forza di legge negli Stati uniti e
in Unione europea. C’è da chiedersi, del resto, se la presenza dei politici in
questo laboratorio di scrittura commerciale sia veramente indispensabile…
Di fatto, le multinazionali mostrano una notevole franchezza nell’esporre le
loro intenzioni. Sulla questione degli Ogm, ad esempio. Mentre
negli Stati uniti uno stato su due pensa di rendere obbligatoria un’etichetta
indicante la presenza di organismi geneticamente modificati in un alimento –
misura auspicata dall’80% dei consumatori del paese –, gli industriali del
settore agroalimentare, là come in Europa, spingono per l’interdizione di questo
tipo di etichettatura. L’Associazione
nazionale dei confettieri non usa mezzi termini: «L’industria statunitense
vorrebbe che il Ttip progredisse su tale questione sopprimendo l’etichettatura
Ogm e le norme relative alla tracciabilità». L’influente Associazione
dell’industria biotecnologica (Biotechnology industry organization, Bio), di cui
fa parte il colosso Monsanto, dal canto suo si indigna perché alcuni prodotti
contenenti Ogm e venduti negli Stati uniti possano subire un rifiuto sul mercato
europeo. Essa desidera di conseguenza che il «baratro che si è scavato tra la
deregolamentazione dei nuovi prodotti biotecnologici negli Stati uniti e la loro
accoglienza in Europa» sia presto colmato (8). Monsanto e i suoi amici non
nascondono la speranza che la zona di libero scambio transatlantico permetta di
imporre agli europei il loro «catalogo ricco di prodotti Ogm in attesa di
approvazione e di utilizzo (9)».
Le rivelazioni sul Datagate
L’offensiva non è meno vigorosa sul fronte della privacy. La Coalizione
del commercio digitale (Digital Trade Coalition, Dtc), che raggruppa industriali
del Net e del hi-tech, preme sui negoziatori del Ttip per togliere
le barriere che impediscono ai flussi di dati personali di riversarsi
liberamente dall’Europa verso gli Stati uniti (si
legga l’articolo a pagina 20). I lobbisti si spazientiscono: «L’attuale punto di
vista dell’Unione, secondo cui gli Stati uniti non forniscono una protezione
“adeguata” della privacy, non è ragionevole».
Alla luce delle rivelazioni di Edward Snowden sul sistema di spionaggio
dell’Agenzia nazionale di sicurezza (National security agency, Nsa), tale
opinione risoluta è certo interessante. Tuttavia, non eguaglia la dichiarazione
dell’Us council for international business (Uscib), un gruppo di società che,
seguendo l’esempio di Verizon, ha massicciamente rifornito la Nsa di dati
personali: «L’accordo dovrebbe cercare di circoscrivere le eccezioni, come la
sicurezza e la privacy, al fine di assicurarsi che esse non siano ostacoli
cammuffati al commercio».
Anche le norme sulla qualità nell’alimentazione sono prese di mira.
L’industria statunitense della carne vuole ottenere la soppressione della regola
europea che vieta i polli disinfettati al cloro. All’avanguardia
di questa battaglia, il gruppo Yum!, proprietario della catena di fast food
Kentucky fried chicken (Kfc), può contare sulla forza d’urto delle
organizzazioni imprenditoriali. L’Associazione nordamericana della carne
protesta: «L’Unione autorizza soltanto l’uso di acqua e vapore sulle carcasse».
Un altro gruppo di pressione, l’Istituto americano della carne, deplora «il
rifiuto ingiustificato [da parte di Bruxelles] delle carni addizionate di
beta-agonisti, come il cloridrato di ractopamina». La ractopamina è
un medicinale utilizzato per gonfiare il tasso di carne magra di suini e bovini.
A causa dei rischi per la salute degli animali e dei consumatori, è stata
bandita in centosessanta paesi, tra cui gli stati membri dell’Unione, la Russia
e la Cina. Per la filiera statunitense del suino, tale misura di protezione
costituisce una distorsione della libera concorrenza a cui il Ttip deve
urgentemente porre fine. Il Consiglio nazionale dei produttori di suino
(National pork producers council, Nppc) minaccia: «I produttori americani di
carne di suino non accetteranno altro risultato che non sia la rimozione del
divieto europeo della ractopamina».
Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, gli industriali raggruppati
in BusinessEurope, denunciano le «barriere che colpiscono le esportazioni
europee verso gli Stati uniti, come la legge americana sulla sicurezza
alimentare». Dal 2011, essa autorizza infatti i servizi di controllo a
ritirare dal mercato i prodotti d’importazione contaminati. Anche in questo
caso, i negoziatori del Ttip sono pregati di fare tabula rasa. Si
ripete lo stesso con i gas a effetto serra. L’organizzazione Airlines for
America (A4A), braccio armato dei trasportatori aerei statunitensi, ha steso una
lista di «regolamenti inutili che portano un pregiudizio considerevole alla
[loro] industria» e che il Ttip, ovviamente, ha la missione di cancellare. Al
primo posto di questa lista compare il sistema europeo di scambio di quote di
emissioni, che obbliga le compagnie aeree a pagare per il loro inquinamento a
carbone. Bruxelles ha provvisoriamente sospeso questo programma; A4A esige la
sua soppressione definitiva in nome del «progresso».
Ma è nel settore della finanza che la crociata dei mercati è più virulenta,
Cinque anni dopo l’esplosione della crisi dei subprime, i negoziatori americani
ed europei si sono trovati d’accordo sul fatto che le velleità di
regolamentazione dell’industria finanziaria avevano fatto il loro tempo. Il
quadro che essi vogliono delineare prevede di levare
tutti i paletti in materia di investimenti a rischio e
di impedire ai governi di controllare il volume, la natura e l’origine dei
prodotti finanziari messi sul mercato. Insomma si tratta puramente e
semplicemente di cancellare la parola «regolamentazione».
Da dove viene questo stravagante ritorno alle vecchie idee thatcheriane? Esso
risponde in particolare ai desideri dell’Associazione delle banche tedesche, che
non manca di esprimere le sue «inquietudini» a proposito della tuttavia timida
riforma di Wall street adottata all’indomani della crisi del 2008. Uno dei suoi
membri più intraprendenti sul tema è la Deutsche bank, che ha tuttavia ricevuto
nel 2009 centinaia di miliardi di dollari dalla Federal reserve statunitense in
cambio di titoli addossati a crediti ipotecari (10). Il mastodonte tedesco vuole
farla finita con la regolamentazione Volcker, chiave di volta della riforma di
Wall street, che a suo avviso sovraccarica un «peso troppo grave sulle banche
non statunitensi». Insurance
Europe, punta di lancia delle società assicurative europee, dal canto suo
auspica che il Ttip «sopprima» le garanzie collaterali che dissuadono il settore
dall’avventurarsi negli investimenti ad alto rischio. Quanto al Forum dei
servizi europei (l’organizzazione padronale di cui fa parte la Deutsche bank),
questi si agita dietro le quinte delle trattative transatlantiche affinché le
autorità di controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle
grandi banche straniere operanti sul loro territorio.
Da parte degli Usa, si spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il
progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie. La questione pare
essere già intesa, dal momento che la stessa Commissione europea ha giudicato
tale tassa non conforme alle regole del Wto (11). Nella misura in cui la zona di
libero scambio transatlantica promette un liberismo ancora più sfrenato di
quello del Wto, e dato che il Fondo monetario internazionale (Fmi) si
oppone a qualunque forma di controllo sui movimenti di capitali, negli Stati
uniti la debole «Tobin tax» non preoccupa più nessuno.
Ma le sirene della deregolamentazione non si fanno ascoltare solo
nell’industria finanziaria. Il
Ttip intende aprire alla concorrenza tutti i settori «invisibili» e di interesse
generale. Gli stati firmatari si vedranno costretti non soltanto a sottomettere
i loro servizi pubblici alla logica del mercato, ma anche a rinunciare a
qualunque intervento sui fornitori stranieri di servizi che ambiscono ai loro
mercati. I margini politici di manovra in materia di sanità, energia,
educazione, acqua e trasporti si ridurrebbero progressivamente.
La febbre commerciale non risparmia nemmeno l’immigrazione, poiché
gli istigatori del Ttip si arrogano il potere di stabilire una politica comune
alle frontiere – senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio
da vendere, a svantaggio degli altri.
Da qualche mese si è intensificato il ritmo dei negoziati. A Washington, si
hanno buone ragioni di credere che i dirigenti europei siano pronti a qualunque
cosa per ravvivare una crescita economica moribonda, anche a costo di rinnegare
il loro patto sociale. L’argomento dei promotori del Ttip, secondo cui il
libero scambio deregolamentato faciliterebbe i commerci e sarebbe dunque
creatore di impieghi, apparentemente ha maggior peso del timore di uno scisma
sociale. Le barriere doganali che sussistono ancora tra l’Europa e gli Stati
uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce il rappresentante
statunitense al commercio (12). I
fautori del Ttip ammettono che il loro principale obiettivo non è quello di
alleggerire i vincoli doganali, comunque insignificanti, ma di imporre
«l’eliminazione, la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali superflue
(13)», dal momento che viene considerato «superfluo» tutto ciò che rallenta la
circolazione delle merci, come la regolazione della finanza, la lotta contro il
riscaldamento climatico o l’esercizio della democrazia. In realtà i rari studi
dedicati alle conseguenze del Ttip non si attardano per nulla sulle sue ricadute
sociali ed economiche.
Un rapporto frequentemente citato, proveniente dal Centro europeo di economia
politica internazionale (European centre for international political economy,
Ecipe), afferma con l’autorevolezza di un Nostradamus da scuola commerciale che
il Ttip darà alla popolazione del
mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al
giorno… a partire dal 2029 (14). A dispetto del suo ottimismo, lo stesso studio
valuta ad appena 0,06% l’aumento del prodotto interno lordo (Pil) in Europa e
negli Stati uniti in seguito all’entrata in vigore del Ttip. Ancora, un tale
«impatto» è decisamente non realistico dato che i suoi autori postulano che il
libero scambio «dinamizza» la crescita economica: una teoria regolarmente
confutata dai fatti. Un aumento così
infinitesimale sarebbe d’altronde impercettibile. A titolo di paragone, la
quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati uniti una crescita
del Pil otto volte più importante.
Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni
favorevoli al libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali, ragione per cui i
costi sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue vittime dirette, che
potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di milioni. Ma i giochi non sono
ancora conclusi. Come hanno mostrato le disavventure del Mai, del Ftaa e alcuni
cicli di negoziati del Wto, l’utilizzo del «commercio» come cavallo di Troia per
smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di incaricati d’affari
in passato ha fallito a più riprese. Nulla ci dice che non possa succedere la
stessa cosa anche questa volta.
*
Direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, Washington, DC, www.citizen.org.