di Stefano Rodotà,
da Repubblica, 18 Marzo 2014
È ancora possibile una politica costituzionale? La questione non
riguarda soltanto l’Italia, né si esaurisce nel controllo di conformità delle
leggi a singole norme della Costituzione. Ma, quando si segnala questo tema,
accade spesso di ricevere risposte infastidite, quasi che si volesse mettere la
politica sotto una incombente e inammissibile tutela del diritto.
La realtà è del tutto diversa. Oggi la politica appare come
l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla
tecnica. Il recupero della sua autonomia, non dirò del suo primato, non può che
essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di
principi democraticamente definiti, appunto quelli che si rinvengono nei
documenti costituzionali, dunque espressione di un progetto che ingloba il
futuro, né volubile, né arbitrario. È una questione che ha un rilevante
significato generale. E che, nell’attuale situazione italiana, va seriamente
discussa, perché è destinata ad incidere fortemente sul modo in cui vengono
affrontate la riforma elettorale e quella costituzionale.
Nell’ultima fase storica si è determinato un passaggio dallo
Stato di diritto allo Stato costituzionale di diritto, connotato dal controllo
di costituzionalità sulle leggi e dalla istituzione di uno spazio dei diritti
fondamentali. Proprio questo modello appare oggi in discussione, scosso dalla
globalizzazione del mondo e dalla sua riduzione alla dimensione finanziaria.
Costituzioni e diritti appaiono un impaccio, lo si proclama talvolta
apertamente, sempre più spesso si agisce come se non esistessero. Lo vediamo in
Italia, ne abbiamo conferma in Europa, dove la Carta dei diritti fondamentali è
stata cancellata, malgrado abbia lo steso valore giuridico dei trattati. Lo
Stato costituzionale di diritto sarebbe dunque alla fine, viviamo in una fase in
cui la mancanza di un quadro istituzionale riconosciuto favorisce l’espandersi
di poteri incontrollati?
Rivolgendo lo sguardo alle cose di casa nostra, vi è un grave
rischio di cui è bene avere piena consapevolezza. La corsa ormai senza freni
verso soluzioni maggioritarie, con seri rischi di incostituzionalità, può
determinare un appannarsi di importanti garanzie costituzionali. Se vi è ancora
memoria della nostra storia, si dovrebbe sapere che quelle garanzie erano state
affidate dai costituenti a maggioranze calcolate con riferimento ad un sistema
elettorale proporzionale, che consentiva un ampio pluralismo delle forze
presenti in Parlamento. Di conseguenza, non v’era una concentrazione di potere
in un partito o in una coalizione tale da consentire interventi in materia
costituzionale affidati ad un solo soggetto, magari costruito artificialmente
grazie a premi di maggioranza. Nel 1953, contro la “legge truffa” si adoperò
proprio l’argomento di una concentrazione di potere nelle mani dei vincitori che
poteva alterare gli equilibri costituzionali. E si deve aggiungere che il
rischio oggi è maggiore, visto che quella legge tanto esecrata prevedeva che il
premio di maggioranza scattasse solo se la coalizione superava il 50% dei voti.
È indispensabile, allora, una politica costituzionale che
ridisegni il quadro delle garanzie, prevedendo maggioranze più larghe per la
revisione costituzionale, l’elezione del Presidente della Repubblica e dei
giudici costituzionali, mettendo in sicurezza proprio le istituzioni di garanzia
e i diritti fondamentali. Non è un compito da affidare al futuro, ma un processo
da avviare in parallelo con l’incombente forzatura maggioritaria. Altrimenti,
eletta la “governabilità” a feticcio indiscutibile, sarebbe travolto il sistema
delle tutele, alterando in un punto nevralgico gli equilibri democratici.
Serve una “ricostituzionalizza-zione”, analoga a quella
necessaria in Europa ridando il suo ruolo alla Carta dei diritti fondamentali.
Bisogna ricostruire il nesso tra le varie parti della Costituzione, cancellato
da una sottocultura che vede la “macchina” dello Stato come dotata di una logica
che può essere manipolata secondo gli interessi di una maggioranza transitoria,
e non come lo strumento per realizzare i principi e i diritti sui quali la
Costituzione si fonda.
Ma la politica costituzionale è indispensabile anche per uscire
da una schizofrenia che da anni affligge il nostro sistema. I diritti
fondamentali sono scomparsi dall’orizzonte parlamentare, dove le poche leggi
approvate sono state ideologiche e repressive. La loro tutela è stata tutta
affidata alla giurisdizione, Corte costituzionale e Corte di Cassazione, dove
per fortuna è rimasta vigile una cultura delle garanzie. Ora il Parlamento deve
riassumere le proprie responsabilità, affrontando grandi questioni individuali e
sociali, di cui non v’è traccia nell’agenda del Governo. O la necessità di
salvaguardare i precari equilibri di maggioranza ci condannano ad una minorità
civile? Qualche esempio. Il riconoscimento effettivo delle unioni anche tra
persone dello stesso sesso, non come una mancia data a malincuore e al ribasso,
ma come tutela di diritti fondamentali, secondo la linea tracciata dai giudici
costituzionali e della Cassazione.
Una normativa coerente al posto delle macerie lasciate dalla
superideologica e incostituzionale legge sulla procreazione assistita. Una nuova
disciplina sugli stupefacenti senza concessioni a furbizie e colpi di mano come
quello tentato dalla ministra per la Salute. Regole minime per eliminare ogni
dubbio sul diritto di morire con dignità. Altrettanto urgente, dopo il monito
del Consiglio d’Europa, è un intervento che cancelli lo scandalo del dilagare
delle obiezioni di coscienza dei medici all’aborto, che negano un diritto delle
donne che la legge vuole pienamente garantito dalle istituzioni pubbliche. Tutte
questioni che toccano “valori non negoziabili” e che mettono a rischio la tenuta
dell’attuale maggioranza? Ma qui non v’è nulla da negoziare. Vi è soltanto il
dovere di dare attuazione a diritti costituzionalmente garantiti, che non
possono essere assoggettati a ricatti e convenienze. Ineludibili politiche
costituzionali, appunto.
Nello spazio tra i silenzi parlamentari e i provvidi, ma
insufficienti, interventi dei giudici si è manifestata negli ultimi tempi una
importante attenzione delle istituzioni locali. Una legge della Regione Abruzzo
ha aperto la strada all’uso terapeutico della cannabis. Molte delibere comunali
saffrontano temi importanti, dai testamenti biologici alle unioni civili, dalla
cittadinanza “civica” dei figli degli immigrati alle garanzie per i detenuti
(segnalo per la sua ampiezza il “pacchetto” del comune di Parma). A Bologna è
stato approvato un regolamento per la collaborazione tra cittadini e
amministrazione per la cura dei beni comuni. Iniziative simboliche in alcuni
casi, ma sempre politicamente significative, perché volte a ricostruire,
attraverso l’attenzione per i diritti e la partecipazione. i rapporti tra
istituzioni e cittadini. La politica costituzionale si sta insediando nei luoghi
della democrazia di prossimità?
Questa lezione può essere messa a frutto dal Parlamento in molti
modi. Rafforzando il suo rapporto con i cittadini con semplici modifiche
regolamentari che diano forza alle iniziative legislative popolari (e invece
arrivano segnali timidi e inadeguati). Cogliendo tutte le occasioni per mettere
in evidenza l’irriducibilità dei diritti fondamentali alla pura logica di
mercato (un segnale eloquente è venuto dallo scandalo dei prezzi di farmaci
prodotti da Roche e Novartis). Ricostituzionalizzando il diritto del lavoro con
la cancellazione dell’articolo che consente negoziati in azienda anche in deroga
alla legge, che azzera storiche garanzie, e approvando una legge sulla
rappresentanza sulla linea indicata dalla Corte costituzionale. Solo così il
Parlamento potrà recuperare un po’ della legittimazione perduta per il fatto
d’essere stato eletto con una legge incostituzionale e per l’ormai radicata
sfiducia dei cittadini.