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Una rivoluzione culturale

di Maurizio Pallante

 

Adista Documenti n° 19 del 24/5/2014

Nel 1958, quando già sapeva di essere gravemente ammalato, Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrisse un racconto, La Sirena, che fu pubblicato nel 1961. (…) Ecco un passaggio del suo racconto:

«Sei stato mai ad Augusta, tu…? E in quel golfettino interno, più in su di punta Izzo, dietro la collina che sovrasta le saline…? Certo è il più bel posto della Sicilia, per fortuna non ancora scoperto dai dopolavoristi. La costa è selvaggia,… completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l’Etna; da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino. È uno di quei luoghi nei quali si vede l’aspetto eterno di quell’isola che tanto scioccamente ha volto le spalle alla sua vocazione che era quella di servir da pascolo per gli armenti del sole».

Quel posto è Priolo: venti chilometri di costa, tra Catania e Siracusa, devastati dalle politiche di sviluppo del Mezzogiorno. Una successione di edifici industriali costruiti negli anni cinquanta del secolo scorso, dove sono state collocate le produzioni più insalubri: dall’amianto alla petrolchimica, dalla raffinazione del petrolio allo stoccaggio dei prodotti di raffinazione, con il contorno delle piattaforme logistiche per i camion e degli attracchi per le petroliere. Venti chilometri di mare non più balneabile, di capannoni in parte degradati, con travi di ferro affioranti da muri di cemento scrostati, finestre arrugginite, vetri rotti, cumuli di rifiuti. Dall’altro lato della strada statale paesi i cui centri storici, per modesti che fossero - la piazza con la chiesa e il municipio - sono stati avvolti da successive concrezioni di condomini bisognosi da subito di manutenzioni mai fatte, di casette squadrate a un piano spesso intonacate solo in parte, da cui affiorano tondini di ferro in attesa di sopraelevazioni, di strade dall’asfalto sconnesso bordate da file ininterrotte di automobili. Luoghi in cui un antico saper fare, connotato qualitativamente e finalizzato all’autoproduzione di beni, è stato annientato da un’arroganza tecnologica finalizzata alla produzione di quantità sempre crescenti di merci e dalla omologazione sui modelli di comportamento consumistici. Dove l’aria è diventata irrespirabile, l’acqua imbevibile, molti terreni agricoli sono stati abbandonati, le percentuali dei tumori e delle deformazioni infantili hanno valori superiori alla media.

Il 27 ottobre 1962, quando - per cause non ancora accertate che, senza essere profeti, si può dire non lo saranno mai - il piccolo aereo dell’Eni su cui viaggiava Enrico Mattei precipitò al suolo nei pressi di Bascapè, il presidente della compagnia petrolifera italiana tornava da un viaggio lampo in Sicilia, dove dal balcone del Municipio di Gagliano Castelferrato, attorniato dai deputati siciliani del Parlamento e dell’Assemblea regionale, aveva annunciato il ritrovamento di importanti giacimenti di gas metano nelle campagne circostanti e l’inizio, ormai imminente, di uno sviluppo industriale che avrebbe portato in quei luoghi ricchezza e benessere. Alla fine del discorso scese nella piazza, dove fu accolto al lancio di coriandoli da una folla festante che lo accompagnò in una sorta di processione fino all’automobile. Del resto, che le sue non fossero semplici promesse ma fatti, acta non verba, era appena stato dimostrato dalla realizzazione a Gela di un grande impianto petrolifero, petrolchimico e chimico che aveva stravolto, in modo non dissimile dalla costa di Priolo, il tratto di costa su cui i greci nel VII secolo avanti Cristo avevano fondato la più importante delle loro colonie sull’isola.

Questi processi, devastanti e irreversibili, di trasformazione del paesaggio - ossia dei luoghi lentamente antropizzati nel corso dei secoli e, insieme ad essi, del sistema dei valori delle generazioni che li stavano abitando e di quelle che li avrebbero abitati in futuro - non si sarebbero potuti realizzare se non fossero stati vissuti come fattori di progresso, se non avessero avuto il consenso di tutti gli strati sociali, se tutti gli strati sociali non fossero stati convinti che avrebbero comportato miglioramenti alle loro condizioni di vita. Se Mattei non fosse stato accolto come un benefattore dalla popolazione e dai politici di tutti i colori.

Appena un anno dopo il discorso di Gagliano Castelferrato e la morte di Mattei, nell’ottobre del 1963, sempre in Sicilia ma questa volta a Palermo, un gruppo di intellettuali italiani diede vita a un movimento di avanguardia che, per sottolineare la sua volontà innovativa anche rispetto alle avanguardie storiche del novecento, si autodefinì neo-avanguardia: il Gruppo 63. Rievocando lo spirito che lo animava, uno dei principali esponenti di quel movimento, Renato Barilli, nel 2007 ha scritto: «L’Italia del dopoguerra voleva crescere, lasciarsi alle spalle le miserie della civiltà contadina, muoversi verso la cultura industriale, l’urbanesimo», liberarsi dai vincoli di un «mondo riduttivo, chiuso al progresso».

L’Italia del dopoguerra voleva crescere, muoversi verso la cultura industriale, l’urbanesimo, il progresso. Questi sono stati in sintesi i moventi del processo che, con l’apporto di una potenza tecnologica sempre maggiore, in poco più di cinquant’anni ha distrutto i paesaggi a cui gli esseri umani che li hanno abitati avevano aggiunto col lavoro di secoli bellezza alla bellezza originaria.

Questi sono stati i capisaldi della cultura che lo hanno reso desiderabile e connotato positivamente nell’immaginario collettivo.


PER AGGIUNGERE BELLEZZA ALLA BELLEZZA ORIGINARIA

Cosa significa il verbo crescere quando viene applicato alle attività economiche e produttive?

La crescita non è, come si fa credere e si fa finta di credere, l’aumento della produzione di beni che migliorano la qualità della vita, perché il parametro che la misura, il prodotto interno lordo, può calcolare soltanto il valore monetario degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro, cioè le merci, ma non può dare nessuna indicazione sulla loro qualità, sulla loro utilità, o sui danni che causano agli ambienti e alle persone nei modi in cui vengono prodotte, quando vengono utilizzate e quando vengono smaltite, come una bilancia può misurare soltanto il peso e non può dare nessuna indicazione sulla qualità di ciò che pesa. Può indicare quanto pesa una certa quantità di mele, ma non se sono buone o cattive, mature, acide o appassite. 

Queste considerazioni di un’ovvietà banale sono state escluse dalla valutazione della produzione di merci e la quantità ha preso il posto della qualità. “Più” è diventato sinonimo di “meglio”. Mentre le economie finalizzate alla sussistenza, alla produzione di beni per autoconsumo, si fondano sulla misura, perché produrre più di quello che serve non avrebbe senso, le economie finalizzate alla crescita della produzione di merci si fondano sulla dismisura. Per produrre sempre di più occorre in primo luogo accrescere in continuazione la potenza tecnologica, costruire macchine operatrici sempre più potenti in grado di aumentare la produttività; ma, se si produce sempre di più, occorre indurre le persone a consumare sempre di più, perché, se tutto ciò che viene prodotto non venisse consumato, come si potrebbe continuare a produrre sempre di più? Sarebbe stato possibile devastare il paesaggio che Tomasi di Lampedusa considerava il più bello di tutta la Sicilia, sarebbe stato possibile devastare il paesaggio del luogo scelto dai greci per fondare la loro colonia più importante sull’isola, se il “più” non fosse stato identificato nell’immaginario collettivo col “meglio”, se il modo di produzione industriale e le innovazioni tecnologiche non fossero state considerate fattori di progresso perché consentono di accrescere la produzione di merci, se la crescita dei consumi di merci non fosse stata considerata un miglioramento rispetto all’autoproduzione di beni, se la salubrità dei luoghi e la salute umana fossero state considerate più importanti del reddito monetario? Oggi è possibile fermare la devastazione dei paesaggi senza una rivoluzione culturale che smonti nell’immaginario collettivo il valore della crescita?

Tutti i piani regolatori hanno sempre previsto, si potrebbe dire “per definizione”, consistenti aumenti delle superfici edificabili, indipendentemente dal colore politico delle giunte. Più in generale, l’edilizia ha svolto una funzione di traino per la crescita economica in tutti i Paesi industrializzati. Quand le bâtiment va, tout va, hanno sintetizzato i francesi con una frase entrata nel lessico internazionale. Se la crescita del settore edile è il fattore trainante della crescita economica e la crescita economica viene identificata col progresso e il benessere; se, per ripetere le parole di Barilli, si è convinti che l’urbanesimo costituisca un progresso rispetto alle miserie della civiltà contadina, non è possibile ridurre le devastazioni paesaggistiche operate da un’edilizia finalizzata a costruire sempre di più e in modi sempre meno qualificati ponendole semplicemente dei limiti a tutela dei paesaggi. I paesaggi sono stati disegnati dalla civiltà contadina: la loro tutela, non fosse altro dal punto di vista idrogeologico, non si può realizzare se non nell’ambito di una rivalutazione della civiltà contadina e di un ridimensionamento dell’urbanesimo. Un’edilizia capace di aggiungere bellezza alla bellezza originaria dei luoghi si può sviluppare soltanto all’interno di un paradigma culturale che liberi il fare dalla finalizzazione a fare sempre di più (la crescita della produzione di merci) e lo ridefinisca nella sua connaturata dimensione qualitativa, facendolo tornare ad essere un fare bene finalizzato alla contemplazione di ciò che si è fatto.


PERCHÉ IL FARE TORNI A ESSERE UN FARE BENE

La decrescita, se correttamente intesa, è in grado di fornire il contesto culturale necessario a fare questo passaggio. La decrescita non è la riduzione quantitativa della produzione di merci. Non è la semplice sostituzione del segno “più” col segno “meno” davanti al valore monetario del prodotto interno lordo, perché in questo modo non si uscirebbe dalla valutazione quantitativa del fare. La decrescita non può essere confusa con la recessione. Tra decrescita e recessione c’è un rapporto analogo a quello che intercorre tra una persona che mangia meno di quanto vorrebbe perché ha deciso di fare una dieta, e una persona che mangia meno di quanto vorrebbe perché non ne ha. A partire dalla distinzione concettuale tra beni e merci, la decrescita si realizza, in primo luogo, diminuendo la produzione e il consumo di merci che non sono beni (per esempio: l’energia che si disperde da una casa mal costruita), ma non dei beni che si possono ottenere solo in forma di merci (per esempio, un computer o una tac). E, in secondo luogo, si realizza aumentando la produzione e l’uso di beni che non passano attraverso uno scambio di denaro, o perché si possono più vantaggiosamente autoprodurre (per esempio: alcuni generi alimentari o alcune riparazioni), o perché si possono più vantaggiosamente scambiare sotto forma di dono e reciprocità nell’ambito di rapporti comunitari (molti servizi alla persona), o perché non possono essere comprati e venduti (i beni relazionali: l’amore, la solidarietà ecc.).

La decrescita reintroduce criteri di valutazione qualitativi nel fare umano e si propone di ridurre gli scambi commerciali alla loro dimensione fisiologica rispetto ai più rozzi criteri di valutazione semplicemente quantitativa e all’onnimercificazione utilizzati nel calcolo del prodotto interno lordo. È una vera e propria rivoluzione culturale, in grado di costruire un diverso immaginario collettivo, definire un diverso sistema di valori e sviluppare una legislazione urbanistica finalizzata non solo a tutelare i paesaggi, ma a favorire la ripresa di quell’opera sapiente e paziente con cui gli esseri umani hanno aggiunto nel corso dei secoli bellezza alla bellezza originaria dei luoghi in cui vivono.

Solo all’interno di questo cambiamento di paradigma è possibile proporre, non come misura contenitiva ma come proposta progettuale per un futuro migliore, il blocco dell’espansione edilizia, a partire da una indagine conoscitiva degli edifici vuoti, come proposto dal Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio.

Ma dal dopoguerra a oggi non si è costruito solo troppo, si è anche costruito male, dal punto di vista estetico, ingegneristico, ambientale ed energetico. Per il riscaldamento invernale i nostri edifici consumano in media 200 chilowattora al metro quadrato all’anno, mentre in Germania la legislazione non consente che si superi un consumo di 70 chilowattora e gli edifici più efficienti ne consumano 15.

Contestualmente al blocco dell’espansione urbanistica occorre pertanto avviare una politica finalizzata a ripristinare la bellezza dei paesaggi, riducendo la quantità e migliorando la qualità degli edifici esistenti.

A tal fine non si potrà prescindere dall’avviare progressivi processi di decostruzione delle aree urbane più degradate e la loro rinaturalizzazione, sull’esempio di quanto sta avvenendo a Detroit. Al contempo si dovrà procedere alla riqualificazione degli edifici esistenti, in particolare dal punto di vista energetico, non soltanto perché ciò consente di ridurre nella maniera più significativa le emissioni di anidride carbonica, ma anche perché la riduzione delle dispersioni termiche non comporta peggioramenti delle condizioni di benessere e ripaga i suoi costi d’investimento con la riduzione dei costi di gestione.

Una politica urbanistica di questo genere consentirebbe di superare la crisi che attanaglia il settore dell’edilizia, dove, più che le politiche fiscali, hanno inciso la saturazione del mercato e il progressivo aumento degli edifici invenduti.

Solo la riduzione della quantità e il miglioramento della qualità, coerentemente al paradigma culturale della decrescita, sono in grado di ridare fiato al settore. Le possibilità che questa svolta possa avvenire sono maggiori di quanto si creda, perché da alcuni decenni non sono più soltanto alcuni architetti e urbanisti illuminati a formulare proposte di questo genere, ma anche settori sempre più vasti dell’opinione pubblica e della società civile, a partire dalla tanto vituperata sindrome nimby (not in my back yard, non nel mio giardino, ndr) che, seppure non immune da connotazioni egoistiche, ha segnato la rottura dell’egemonia culturale della crescita, rimettendo in discussione la sua identificazione col concetto di progresso. Oggi un’accoglienza festante come quella ricevuta da Mattei nella piazza di Gagliano Castelferrato non è più immaginabile. Oggi le grandi opere e i grandi impianti industriali che distruggono i paesaggi e la vita degli esseri umani che li abitano devono essere imposti con la forza, l’occupazione militare del territorio, la demonizzazione mediatica di chi li rifiuta. Una saldatura tra questi movimenti e gli intellettuali impegnati a costruire un paradigma culturale dove il fare torni ad essere un fare bene, e il fine del fare bene sia la possibilità di contemplare ciò che si è fatto, può essere decisiva per imprimere una direzione positiva alla svolta della storia che stiamo vivendo