La battaglia di Francesco tra potere e misericordia
di Vito Mancuso
“la Repubblica” del 13 marzo 2015
A un amico argentino Bergoglio avrebbe confidato di «non essere sicuro di farcela», intendendo evidentemente rimandare al processo di riforma iniziato due anni fa quando venne eletto e tra la sorpresa generale scelse di chiamarsi Francesco. Allora la mente di molti corse all’affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi con papa Innocenzo III che vede in sogno un frate che sorreggeuna chiesa che sta per crollare.
Due anni fa la Chiesa era in quelle condizioni, come certificarono le coraggiose dimissioni di Benedetto XVI: travolta dagli scandali, al minimo della credibilità morale, sempre più priva del favore popolare. E in quel contesto si profilò un nuovo Francesco a sobbarcarsi il compito di sorreggere l’edificio pericolante, questa volta non più semplice frate ma Pontefice massimo. A distanza di due anni, che ne è di quell’intento riformatore?
Oggi assistiamo a un fenomeno paradossale.
Assistiamo alla crescita continua del favore popolare verso papa Francesco e contestualmente alla crescita altrettanto continua dell’opposizione interna verso di lui, particolarmente dura tra i cardinali, la Curia romana e alcuni episcopati.
Il che è la perfetta radiografia dello scollamento di buona parte della gerarchia ecclesiastica rispetto alla vita reale, quello scollamento di cui il cardinal Martini parlava dicendo «la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni». Nel primo anno Francesco forse credeva di poter convertire la mente dei prelati mostrando con il suo stile cosa significa essere autorità nella Chiesa. Nel secondo anno però ha dovuto prendere atto che ci vuole altro, perché mentre lui vive in una settantina di metri quadrati vi sono cardinali che non hanno rinunciato per nulla al lusso e soprattutto ve ne sono molti del tutto contrari a seguirlo nelle riforme. Si spiega così il suo insistere contro i vizi del clericalismo, culminato nella predica alla Curia del 22 dicembre scorso con la denuncia dei quindici mali della burocrazia vaticana, riassumibili in uno solo: l’identificazione con il potere. La battaglia infatti è tra misericordia e potere, tra Chiesa “ospedale di campo” funzionale ai bisogni della gente e Chiesa somma autorità cui la gente deve obbedire, tra Chiesa dei poveri e Chiesa potente tra i potenti. Nessuno sa come finirà questa battaglia iniziata due anni fa, ma di certo i cardinali e i curiali che si oppongono a Francesco sono l’espressione di ciò che per secoli è stato il papato, sicché riformare la loro mentalità significa riformare il papato come potere assoluto.
Ora però quel potere assoluto è nelle mani di Francesco e se lui volesse potrebbe utilizzarlo proprio per decretarne la riconversione: basterebbe una sua firma infatti per rimandare nelle rispettive parrocchie di origine i prelati che maggiormente si oppongono alla sua azione riformatrice e sceglierne altri più in linea con lo stile evangelico. Perché non agire così, visto che la posta in gioco è enorme?
Essa consiste nel diritto dei battezzati di avere una Chiesa di cui fidarsi, dove i vescovi vengano scelti per effettive qualità e non per giochi di potere e siano sobri come gli apostoli e non opulenti come i magnati, dove la banca vaticana dello Ior sia per lo meno al livello etico di una banca ordinaria, dove non vi sia la sporcizia a suo tempo denunciata da Benedetto XVI, dove gli uomini e le donne di oggi si sentano a casa perché capiti anche nei loro errori e non giudicati da una mentalità freddamente dottrinale, dove gli scandali di pedofilia non siano insabbiati e i colpevoli coperti. La posta in gioco è una Chiesa degna della passione dei numerosi sacerdoti onesti che le hanno dedicato la vita. È per una Chiesa di questo tipo che lavora papa Francesco insistendo sul primato della coscienza, l’apertura alla modernità, la consultazione dei fedeli sui temi della morale, il riaccredito della teologia della liberazione, la preferenza verso i poveri, un linguaggio in grado di arrivare a tutti. Bergoglio sa che il primo passo della Chiesa è tornare a credere al Vangelo anzitutto ai suoi vertici, sa cioè che l’evangelizzazione riguarda la gerarchia ecclesiastica, ben prima del mondo.
Oltre all’enorme favore popolare, papa Francesco in questi due anni ha conseguito altre notevoli acquisizioni. Penso al processo sinodale che culminerà nel prossimo ottobre con la seconda puntata del Sinodo sulla famiglia, l’aver scongiurato l’intervento militare occidentale in Siria e l’aver favorito la storica riconciliazione tra Cuba e Usa, i passi di avvicinamento alla Cina, l’essere diventato un faro per il Sud del mondo e per i poveri.
Ma come ho detto all’inizio, sembra che egli abbia confidato a un amico di non essere sicuro di farcela a causa della crescente opposizione interna. Occorre quindi chiedersi cosa succederebbe se Francesco fallisse. Io penso che per il cattolicesimo sarebbe un colpo terribile, perché le enormi speranze che questo Papa sta suscitando si rivolgerebbero in un’altrettanto enorme delusione e il contraccolpo sulla credibilità della Chiesa potrebbe essere devastante, se non letale. Non morirebbe la spiritualità, che è radicata da sempre nel cuore umano, ben prima della nascita del cristianesimo. Non morirebbe neppure il cristianesimo, che troverebbe altre forme per esprimersi, come ha fatto in altri luoghi del mondo. Si avvierebbe invece irreversibilmente alla morte la Chiesa cattolica gerarchica così come la conosciamo, perché nessuno potrà e vorrà avere più fiducia in una struttura dimostratasi restia a seguire un cristiano sincero e un uomo buono come Jorge Mario Bergoglio. Il fallimento del Papa venuto dalla fine del mondo segnerebbe la fine della Chiesa gerarchica e istituzionale. Non so se è questo che vogliono i numerosi cardinali, vescovi e curiali che gli si oppongono, ma penso sia bene che lo sappiano.