I confini della misericordia
Vito Mancuso
da
Repubblica 23 gennaio 2016
Contrariamente a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il
discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo
copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche
tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere. Francesco ha detto che «non
può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di
unione», perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio
indissolubile, unitivo e procreativo») appartiene «al sogno di Dio e della sua
Chiesa per la salvezza dell'umanità». Vi è quindi un modello canonico di
famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e
permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno
stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina
ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il
termine meno intenso di «unione» …
Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al
disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in
un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a
tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle
società occidentali? Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con
cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso
di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo,
della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto. In realtà che la
famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia”
deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che
millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben
lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica,
esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi,
servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende
membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente». Lo stesso vale per il greco
del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo,
che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo
il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il
termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa
“presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa
di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato,
comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili.
Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel
senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non
è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia. È vero che in essa
si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i
due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze
concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede
uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli
(Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700. A parte
Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della
Bibbia a loro riguardo. Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio?
Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno
interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va
interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina
ecclesiastica?
Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato
oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi
sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il
rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di
sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno. Siamo quindi davvero
sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con
l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è
misericordia»? Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare
che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto
canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli
esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione
armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento
nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita
umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter
essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente
riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio
amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica,
politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come
integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica
e oggettiva dell’esistenza umana.
La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale
verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono
strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In
realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto
inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è
un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa
dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non
pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado
continuano a esserlo. Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo
più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale,
eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione. La maturità di una società si
misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto
nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità
cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così
come sono venuti al mondo, nessuno escluso.
Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce
omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si
trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile
quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena
dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità.
Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione
del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura
la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa
Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.