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Le Nazioni Unite hanno ragione: Pace e colonie sono inconciliabili»

intervista a Yael Dayan a cura di Umberto De Giovannangeli

 “l’Unità” del 27 dicembre 2016

«Per Netanyahu e il suo governo di falchi, il peggiore che Israele ha conosciuto nella sua storia, il voto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta una clamorosa débacle politico- diplomatica. Quella risoluzione va al cuore del problema e afferma, senza giri di parole, che pace e colonizzazione sono inconciliabili. L’una esclude l’altra. E non si agiti il tema della sicurezza: esso non ha nulla a che fare con l’ideologia di “Eretz Israel”(la Terra d’Israele) che supporta da sempre, sul piano ideologico, le politiche della destra nazionalista nel mio Paese». A sostenerlo è una icona della sinistra laica e pacifista d’Israele: Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia di uno dei «miti» dello Stato ebraico: il generale Moshe Dayan, l’eroe della Guerra dei Sei giorni.

L’ira di Benjamin Netanyahu si è abbattuta sugli ambasciatori dei quindici Paesi membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, colpevoli, agli occhi del premier israeliano, di aver approvato all’unanimità (con l’astensione decisiva degli Usa) una risoluzione che condanna la politica di colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Cosa c’è dietro l’ira di “Bibi”?

«Netanyahu si è scoperto come il “Re nudo” della favola. Quella risoluzione è lo specchio che riflette una verità storica spiacevole per la destra nazionalista».

E qual è questa verità?

«Non esiste, non può esistere una pace vera, durevole, che possa conciliarsi con la massiccia colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Non è conciliabile per il semplice, inconfutabile, dato di realtà che la politica di annessione di fatto di terre palestinesi, la trasformazione, anche sul piano dello status, di colonie in città israeliane, mina dalle fondamenta un accordo fondato sul principio di “due popoli, due Stati”».

Ma gli insediamenti, le direbbe un esponente del Likud (il partito di Netanyahu) sono cresciuti, e tanto, anche quando a guidare Israele c’erano primi ministri laburisti.

«Su questo la sinistra dovrebbe riflettere e fare una salutare autocritica. Ma c’è una differenza sostanziale: nell’orizzonte della destra nazionalista, gli insediamenti hanno una legittimazione ideologica e non rispondono a ragioni di sicurezza. Per la destra più estrema, che oggi ha un ruolo decisivo all’interno del governo, i coloni, anche nelle componenti più radicali, sono degli eroi, i pionieri di “Eretz Israel”. In questa ottica, gli insediamenti in Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania, ndr) sono la concretizzazione del disegno della “Grande Israele” che è stato a fondamento del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, che è sempre stato il pensatore di riferimento della destra israeliana. Dove dovrebbe nascere lo Stato dei palestinesi? Su quali territori, entro quali confini? E ancora: certo, può esistere uno Stato smilitarizzato ma non uno Stato che non eserciti la propria sovranità sul territorio nazionale. Uno Stato del genere sarebbe una finzione. I Netanyahu, i Lieberman, i Bennett considerano la nascita di uno Stato di Palestina non come una minaccia alla sicurezza d’Israele ma come un colpo mortale alla “Grande Israele”. Non dimentichiamoci che per aver deciso di sgomberare 11 insediamenti nella Striscia di Gaza, Ariel Sharon, che certo non era un pacifista, fu accusato dal movimento dei coloni ma anche da Netanyahu di essere un traditore, al punto da essere costretto a uscire dal Likud e fondare un nuovo partito, Kadima».

Per tornare all’ira di Netanyahu nel giorno di Natale. Per la prima volta nella storia, a essere convocato è stato anche l’ambasciatore degli Stati Uniti. Qual è il segno politico di questo atto?

«Un segno duplice, che riguarda il passato e il futuro. La destra israeliana, Netanyahu in testa, ha sempre vissuto il presidente Obama non come un alleato ma come un interlocutore ostile se non come una minaccia. Il problema è che Netanyahu non è alla ricerca di alleati ma di complici che avallino ogni sua politica. E questo atteggiamento vale anche per l’Europa. Chi si azzarda a criticare la colonizzazione viene subito bollato come nemico, animato da una ostilità pregiudiziale verso

Israele e di un atteggiamento smaccatamente filopalestinese. E c’è chi si è spinto fino a denunciare critiche di merito, come quelle sugli insediamenti, rispolverando l’accusa di antisemitismo. L’Europa ha fatto il pieno di queste critiche».

Ma Israele non rischia così l’isolamento?

«A Netanyahu e alla destra oggi al potere, dell’Europa non è mai interessato niente. Chi conta sono solo gli Stati Uniti. E Netanyahu è convinto che dal 20 gennaio 2017 alla Casa Bianca si cambierà aria con l’insediamento di Donald Trump e l’uscita di scena dell’odiato Obama».

“The Donald”e i suoi consiglieri per il Medio Oriente hanno ribadito a più riprese di non considerare gli insediamenti né illegali né un ostacolo alla pace.

«Cosa vuole che le dica: spero che il presidente Trump sia più pragmatico ed equilibrato del Trump candidato e che non avalli comportamenti irresponsabili. Il Medio Oriente è già in fiamme, e gettare altra benzina sul fuoco sarebbe una iattura. Per tutti».

Cosa significa essere per Lei “amici d’Israele”?

«Un vero amico è quello che sa dirti quando sbagli e ti aiuta a non ricommettere gli stessi errori. Israele ha bisogno di questi amici. Obama lo era. E Trump?».