Maternità surrogata, uno scambio ineguale
di Valentina Pazè
sul Manifesto di sabato 9 gennaio 2016
Nel
dibattito sulla maternità surrogata c’è un grande assente. Si tratta dell’art.
3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che
stabilisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali
una fonte di lucro». In base a questa disposizione, contenuta in un documento
che — ricordiamolo — ha oggi lo stesso valore giuridico dei Trattati, sono
vietate nell’ambito dell’Unione non solo la vendita del rene o l’affitto
dell’utero, ma anche la vendita di “prodotti” corporei come il sangue, gli
ovuli, i gameti, che possono essere donati, ma non divenire merce di scambio sul
mercato. Simili pratiche (con l’eccezione della vendita del rene, oggi
consentita — a mia conoscenza — solo in Iran), sono invece perfettamente lecite
al di fuori dell’Unione europea; non solo in India o in Ucraina, ma negli Stati
uniti, dove da anni esiste e prospera un fiorente mercato del corpo.
Sottrarre alle persone, uomini o donne che siano, la possibilità di disporre
a piacimento di ciò che “appartiene” loro nel modo più intimo significa
esercitare una forma di paternalismo? Qualcuno lo sostiene. Se di paternalismo
si tratta, certo è lo stesso che giustifica la previsione dell’inalienabilità
e indisponibilità dei diritti fondamentali. In stati costituzionali di diritto,
come il nostro, non si può vendere il voto, e un contratto con cui qualcuno si
impegnasse a farlo sarebbe nullo. Lo stesso dicasi del contratto attraverso il
quale qualcuno disponesse, “volontariamente”, di rinunciare alla propria
libertà, dichiarandosi schiavo di qualcun altro.
La ratio di simili divieti è chiara: si tratta di impedire che soggetti in
condizioni di debolezza economica e culturale compiano scelte a loro svantaggio
solo apparentemente libere, in realtà tristemente necessitate. Là dove simili
divieti non esistono, o sono rimossi, i diritti diventano, da fondamentali,
patrimoniali: la salute e l’istruzione si vendono e si comprano, così come le
spiagge, l’acqua potabile, l’aria pulita. L’ultima frontiera è quella della
cannibalizzazione del corpo e dei suoi organi che, da «beni personalissimi», «la
cui integrità è tutt’uno con la salvaguardia della persona e della sua dignità»
(L. Ferrajoli), vengono degradati a beni patrimoniali, merce di scambio sul
mercato capitalistico.
«Di quale esercizio della libertà si può parlare quando il condizionamento
economico esclude la possibilità di decisioni davvero autonome?»- si chiede
Stefano Rodotà. E prosegue: «Ecco perché appare necessario collocare il corpo
fuori della dimensione del mercato, consentendo invece che le allargate
possibilità di disporre di sue parti o prodotti possano essere esercitate nella
forma del dono, come espressione della solidarietà» (Libertà personale. Vecchi
e nuovi nemici, in Quale libertà? Dizionario minimo contro i falsi liberali,
a cura di M. Bovero, Laterza 2004).
Si tratta di un principio che vale per il sangue, che, nel nostro paese, si dona
ma non si vende. Può essere esteso all’utero? È possibile difendere il
“prestito” dell’utero, distinguendolo dal vero e proprio “affitto”? Anche sul
dono, in realtà, è bene fare un po’ di chiarezza. Sulle pagine dei giornali
(come anche sul manifesto) si sono pubblicati racconti di donne che, per
“amore”, portano avanti gravidanze per altri. È una generosità che si può ben
comprendere quando riguarda persone che intrattengono fra loro legami di
affetto, intimità, amicizia: la sorella o l’amica che si offrono di aiutare una
persona cara a realizzare il sogno della genitorialità. Davvero eroico — e anche
un po’ sospetto — appare invece il gesto della donna che mette il proprio corpo
gratuitamente a disposizione di sconosciuti, contattati attraverso un’agenzia
(anch’essa mossa da pure intenzioni oblative?).
Di sicuro si tratta di un genere di altruismo che non trova riscontro
nell’enorme mole di studi antropologici, psicologici, sociologici che — da
Marcel Mauss in avanti — si sono occupati del fenomeno del dono. Questi studi ci
dicono che, in realtà, il dono davvero gratuito non esiste. Dalla notte dei
tempi, il dono è uno strumento per creare e rinsaldare legami sociali. Comporta
sempre l’aspettativa di una restituzione, non intesa nei termini contabili dello
scambio mercantile, ma in quelli morali e relazionali propri del paradigma della
reciprocità (rinvio, per farsi un’idea a Il dono perduto e ritrovato,
Manifestolibri 1994). Come può rientrare in questo schema la maternità surrogata
a favore di estranei, in molti casi destinati a rimanere tali?
Il confronto con la donazione del rene — con tutte le differenze del caso — può
aiutare ad orientarci. Mentre fino a qualche tempo fa in Italia, come in molti
altri paesi, il prelievo del rene da persone viventi era consentito solo a patto
che esistesse un legame di parentela o di affetto tra donatore e ricevente,
e che fosse escluso il passaggio di denaro tra di loro, una legge del 2010 ha
introdotto la cosiddetta “donazione samaritana” (su cui rimando a P. Becchi, A.
Marziani, Il criterio di reciprocità nella donazione degli organi. Per un nuovo
approccio alla questione dei trapianti, Ragion pratica 39, 2012, cui ho attinto
largamente per le considerazioni che seguono ). Si tratta in sostanza della
possibilità, aperta a chiunque, di donare un rene a una persona sconosciuta, la
cui individuazione spetterà esclusivamente al personale medico.
La legge prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano all’oscuro
dell’identità l’uno dell’altro e che non stabiliscano alcun legame tra loro
neanche dopo l’intervento. Quando ho appreso dell’esistenza di questa norma, ho
provato a immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi mutilare
“per il bene dell’umanità”. Un angelo? Un autentico soggetto morale kantiano,
che agisce per il dovere e solo per il dovere, senza cercare alcuna
gratificazione personale?
In realtà, se andiamo a vedere come ha finora funzionato questa legge, scopriamo
che i (pochi) casi in cui è stata applicata riguardano soggetti in condizioni
del tutto particolari, come i detenuti. È facile immaginare le motivazioni che
possono spiegare il loro gesto: il bisogno di espiare, così diffuso tra
i soggetti subalterni, incoraggiati magari dalle premurose pressioni di pii
assistenti spirituali. La pulsione narcisistica a compiere un atto eroico,
super-rogatorio, in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Certo, la
donazione del rene ha conseguenze ben più devastanti, per il donatore, di quanto
non comporti condurre a termine una gestazione per altri (che, pure, non è una
passeggiata, né un’esperienza priva di conseguenze sul piano fisico e psichico).
Non riesco comunque a non chiedermi se i casi di maternità surrogata per “amore”
di estranei non si prestino a una simile lettura.
Teniamo presente che nella stragrande maggioranza dei casi, oggi, nel mondo, la
maternità surrogata avviene dietro compenso (talvolta mascherato da rimborso
spese o regalo). Un nuovo, potenzialmente enorme, mercato si sta aprendo, con
giri di affari per nulla trascurabili se si tiene conto del contorno di agenzie
di intermediazione, cliniche private, consulenze legali e assicurative che
comporta. È di questo che dobbiamo discutere. Sia che coinvolga donne del terzo
mondo, indotte a mettere la propria capacità riproduttiva al servizio di coppie
benestanti dell’Occidente, sia che riguardi donne statunitensi che investono
i trenta o cinquantamila dollari ricavati dalla gestazione per pagare
l’università al figlio, stiamo parlando di scelte necessitate, o fortemente
condizionate, da fattori economici. Non chiamiamola, per favore, libertà.
Assomiglia troppo alla libertà del proletario di vendere la propria forza-lavoro
al capitalista.