Scarpinato: “La riforma Renzi è oligarchica e antipopolare”
di Roberto Scarpinato*
da
micromega-online 25/11/2016
Il mio dissenso nei confronti della riforma costituzionale è dovuto a vari
motivi che, per ragioni di tempo, potrò esplicare solo in piccola parte.
In primo luogo perché questa riforma non è affatto una revisione della
Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina
statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce
una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a
quella vigente, mutando in profondità l’organizzazione dello Stato, i rapporti
tra i poteri ed il rapporto tra il potere ed i cittadini.
Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è organizzato,
ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei
cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione.
Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’articolo 58 della
Costituzione vigente che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i
senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione,
norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene
al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Nella diversa organizzazione del potere prevista dalla riforma, questo potere
sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e
attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali.
Poiché, come diceva Hegel, il demonio si cela nel dettaglio, questo dettaglio –
se così vogliamo impropriamente definirlo – racchiude in se e disvela l’animus
oligarchico e antipopolare che – a mio parere – attraversa sottotraccia tutta la
riforma costituzionale, celandosi nei meandri di articoli la cui comprensione
sfugge al cittadino medio, cioè a dire alla generalità dei cittadini che il 4
dicembre saranno chiamati a votare.
I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla
necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo
paritario, questione sulla quale si può concordare in linea di principio, ma
glissano su un punto essenziale: Perché pur riformando il Senato avete ritenuto
indispensabile espropriare i cittadini del diritto – potere di eleggere i
senatori?
Il bicameralismo così come lo volete riformare non poteva funzionare altrettanto
bene lasciando intatto il diritto costituzionale dei cittadini di eleggere i
senatori?
Perché questo specifico punto della riforma è stato ritenuto tanto essenziale da
determinare addirittura l’epurazione dalla Commissione affari costituzionali dei
senatori del Pd – Corradino Mineo e Vannino Chiti – che si battevano per
mantenere in vita il diritto dei cittadini di eleggere i senatori?
Forse uno degli obiettivi che si volevano perseguire, ma che non possono essere
esplicitati alla pubblica opinione, era proprio quello di restringere gli spazi
di partecipazione democratica e di estromettere il popolo dalla macchina dello
Stato?
Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e
della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli spazi di
democrazia e di rappresentanza?
Questo travaso di potere dai cittadini alle oligarchie di partito non riguarda
solo il Senato, ma anche la Camera dei Deputati e viene realizzato mediante
sofisticati meccanismi che sfuggono alla comprensione del cittadino medio.
La nuova legge elettorale nota come l’Italicum, che costituisce una delle chiavi
di volta della riforma, attribuisce infatti ai capi partito e ai loro entourage
il potere di nominare ben cento deputati della Camera, imponendoli dall’alto
senza il voto popolare.
Questo risultato viene conseguito mediante il sistema dei capilista bloccati
inseriti di autorità nelle liste elettorali presentate nei 100 collegi nei quali
cui si suddivide il paese, e che vengono eletti automaticamente con i voti
riportati dalla lista, senza che nessun elettore li abbia indicati.
Gli elettori potranno esprimere un voto di preferenza per un altro candidato
oltre il capo lista, ma i voti di preferenza così espressi saranno presi in
considerazione solo se la lista da loro votata avrà ottenuto più di cento
deputati in campo nazionale, perché i primi cento posti sono bloccati per le
persone “nominate” dai gruppi dirigenti del partito in base a particolari
vincoli di fedeltà.
Così, per formulare un esempio, se una lista ottiene un totale nazionale di voti
pari a 100 deputati, nessuno dei candidati scelti dagli elettori dal 101 in poi
con il voto di preferenza potrà essere eletto alla Camera, perché tutti i posti
disponibili sono stati esauriti.
Ora poiché il premio di maggioranza previsto dall’Italicum attribuisce al
partito vincitore delle elezioni 340 deputati su 630, tutti i partiti della
minoranza potranno portare alla Camera nel loro insieme complessivamente 290
deputati, e, quindi, ciascuno solo una quota di deputati intorno a 100 o ad un
sottomultiplo di cento.
Il che significa che entreranno alla Camera per le minoranze solo i capilista
bloccati, nominati dai capi partiti. Nessuno o quasi dei candidati scelti dagli
elettori oltre i cento con i voti di preferenza, farà ingresso in Parlamento.
Ne consegue che ben due terzi dei cittadini italiani votanti, tanti quanti sono
rappresentati dalla somma dei partiti della minoranza nell’attuale panorama
tripolare nazionale, saranno di fatto privati del diritto di scegliere i propri
rappresentanti alla Camera.
Se questa è la sorte riservata ai cittadini elettori delle minoranze, è
interessante notare come il congegno dei cento capilista bloccati, unito ad
altri, consegua poi l’ulteriore risultato antidemocratico di determinare una
distorsione della rappresentanza parlamentare anche nel partito di maggioranza,
e di realizzare una sostanziale abolizione della separazione dei poteri tra
legislativo ed esecutivo.
Per spiegare come ciò si verifichi, occorre comprendere come opera il combinato
disposto della riforma e dell’Italicum.
L’articolo 2 comma 8 dell’Italicum stabilisce: “I partiti o i gruppi politici
organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel
quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo
della forza politica”. In questo modo il voto per la forza politica “che si
candida a governare” è anche il voto per il “capo della forza politica” che si
candida a divenire il capo del governo, in contrasto con l’art. 92 della
Costituzione, rimasto inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della
Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Come è stato
osservato, sarà ben difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma
perfino la sfiducia, destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della
Camera.
Ciò posto, tenuto conto che, come accennato, l’Italicum attribuisce alla
medesima oligarchia di partito che esprime il leader della forza politica
candidato a capo del governo, la possibilità di nominare cento deputati della
Camera, è evidente che tale gruppo oligarchico nominerà capilista, e quindi
deputati ipso facto, tutti i componenti del gruppo ed i fedelissimi del leader.
Si tratta di un numero di deputati che già di per se attribuisce al futuro capo
del governo la Golden share per il controllo della maggioranza alla Camera dei
deputati, perché equivale a circa un terzo dei deputati eleggibili dal partito.
Qualunque studioso di diritto societario sa bene che l’amministratore delegato
di una azienda che detiene un terzo della quota azionaria, è in grado di
controllare l’intera azienda. Ma non finisce qui. Il leader futuro capo del
governo ed il suo entourage dopo avere nominato 100 deputati, tanti quanti sono
i collegi elettorali del paese, sono gli stessi che formano la lista degli altri
candidati non bloccati, per i quali gli elettori hanno la possibilità di
esprimere una preferenza o due a condizione che si votino candidati di sesso
diverso.
La riforma costituzionale non prevede alcuna norma che imponga (così come, ad
esempio, l’art. 21 della Costituzione tedesca) che l’ordinamento interno dei
partiti debba essere conforme ai princìpi fondamentali della democrazia e che
garantisca, di conseguenza, una selezione democratica dei candidati da inserire
nelle liste elettorali. Dunque la stessa oligarchia partitica che elegge se
stessa con il sistema dei 100 capilista bloccati, ha la possibilità di cooptare,
inserendoli nella lista dei candidati votabili, solo personaggi ritenuti
affidabili e obbedienti, escludendo dalla lista gli indipendenti e gli esponenti
delle opposizioni interne, oppure relegandoli in posizioni marginali.
Ma non finisce qui. L’Italicum ha in serbo un altro congegno a disposizione
delle oligarchie di partito per selezionare persone da cooptare nella
maggioranza parlamentare del futuro capo del governo. Si tratta della
possibilità di candidare la stessa persona in ben dieci diversi collegi
contemporaneamente. Il candidato eletto in più collegi deve scegliere il
collegio che preferisce. In quello in cui rinuncia, al suo posto viene eletto il
candidato che ha ottenuto più voti di preferenza dopo di lui. Il gruppo
oligarchico che esprime il leader futuro capo del governo ha in questo modo la
possibilità di neutralizzare eventuali candidati espressi dai territori e
ritenuti non affidabili, stabilendo che il candidato eletto in più
circoscrizioni e fedele alla leadership, scelga la circoscrizione nella quale
altrimenti al suo posto verrebbe eletto il candidato non gradito, che viene così
escluso dalla Camera.
Grazie a questi congegni elettorali, lo stesso gruppo oligarchico che designa
come capo del Governo il capo della partito di maggioranza, acquisisce la
possibilità di controllare contemporaneamente sia il Governo che la Camera dei
deputati.
Si realizza così un continuum tra Camera dei deputati e Governo espressione
entrambi dello stesso gruppo oligarchico che abolisce di fatto la separazione
dei poteri tra legislativo ed esecutivo, e la Camera si trasforma da organo
espressione della sovranità popolare che controlla il governo dando e revocando
la fiducia, in Camera di ratifica delle iniziative legislative promosse dal Capo
del Governo, il quale è allo stesso tempo capo del partito di maggioranza.
Il capo del Governo/capopartito oltre ad avere una supremazia di fatto sulla
Camera nei modi accennati, ha anche una supremazia istituzionale in quanto la
riforma gli attribuisce il potere di dettare l’agenda dei lavori parlamentari
con il meccanismo delle leggi dichiarate dal Governo di urgenza che devono
essere approvate entro 70 giorni.
Interessante notare che la stessa corsia preferenziale non è prevista per le
leggi di iniziativa parlamentare, così che il governo è in grado di colonizzare
ancor di più l’attività legislativa del parlamento.
Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della
separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di
controllo di quest’ultimo sul primo, si somma poi la disattivazione del ruolo
delle minoranze che, sempre grazie all’Italicum, sono condannate per tutta la
legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290
deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa.
E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze
siano in realtà la maggioranza reale nel paese, assommando i voti di due terzi
dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del
governo.
Grazie alla lampada di Aladino del combinato disposto della riforma
costituzionale e dell’Italicum, un ristretto gruppo oligarchico autoreferenziale
in grado di auto cooptarsi prescindendo in buona misura nei modi accennati dai
voti di preferenza espressi da una minoranza del paese, pari a circa un terzo
dei votanti, che lo porta al potere, è in grado di divenire il gestore
oligopolistico delle leve strategiche dello stato, cioè della Camera e del
Governo.
Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido contro
bilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di
supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla
Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie
Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti, e via
elencando. Si pongono così le premesse per realizzare uno spoil system
generalizzato, finalizzato a garantire l’autoriproduzione del gruppo oligarchico
mediante la nomina ai vertici degli apparati che contano solo persone di provata
consonanza politica e fedeltà.
Tramite questi e molti altri sofisticati meccanismi che per ragioni di tempo non
posso spiegare, si pongono così a mio parere le premesse per una transizione
occulta da un repubblica parlamentare imperniata sulla sovranità popolare, sulla
centralità del Parlamento e sulla separazione dei poteri, ad un regime
oligarchico nel quale il potere reale si concentra nelle mani di una oligarchia
che occupa il cuore nevralgico dello stato.
Per giustificare la sostituzione della Costituzione vigente con una nuova
Costituzione, i promotori della riforma si sono appellati ad argomenti che si
rivelano non ancorati alla realtà e che, proprio per questo motivo, suscitano, a
mio parere, serie perplessità, giacché se le ragioni della riforma dichiarate
non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che
non si ritiene politicamente pagante esplicitare.
Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi
della politica e sarebbe necessaria ed urgente per risolvere i problemi del
paese. Quanto all’inconsistenza del primo argomento – cioè lo scopo di tagliare
i costi della politica – non ritengo di dovermi soffermare. La Ragioneria dello
Stato in una relazione trasmessa al Ministro per le riforme in data 28 ottobre
2014 ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari a
57,7 milioni di euro, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che
potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza alcuna
necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi della
corruzione, i costi della evasione fiscale, invece di tagliare la democrazia.
Il secondo argomento dei sostenitori del Si è – come accennavo – che la riforma
è necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese, in quanto il
bicameralismo paritario determina una patologico rallentamento del processo
legislativo, ed in quanto l’attuale assetto costituzionale impedisce una
governabilità del paese agile, flessibile, necessaria per reggere le sfide della
globalizzazione.
Se questo è lo scopo dichiarato, non risulta che siano stati indicati dai
fautori del Si i problemi del paese che sarebbero stati causati in passato dalla
farraginosità dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione vigente e
che, invece, troverebbero immediata soluzione con la riforma della Costituzione.
Forse la completa assenza di una politica industriale che perdura da oltre un
quarto di secolo e a causa della quale dal 2008 ad oggi sono passati al capitale
straniero più di 500 marchi storici di tutti i settori strategici dell’industria
nazionale?
Dall’elettronica, alle automobili, alle comunicazioni, agli elettrodomestici,
alle ferrovie, all’aerospaziale, all’agroalimentare, alla moda, l’elenco dei
marchi passati al capitale straniero da la sensazione di una silenziosa
Caporetto nazionale: Pirelli, Pininfarina, Indesit, Ansaldo Breda, Italcementi,
Edison, Buitoni, Parmalat, Fendi, Bulgari, Gucci, Valentino, etc
Forse la disoccupazione giovanile che raggiunge livelli record in ambito europeo
e l’emigrazione all’estero di centinaia di migliaia di giovani laureati che nel
nostro paese non hanno alcun futuro?
Forse la gigantesca evasione fiscale (la terza del mondo dopo Messico e Turchia)
con un mancato introito per le casse dello stato che mette in ginocchio
l’erogazione dei servizi sociali?
Ciascuno può allungare a piacimento la lista dei gravi problemi nei quali versa
il paese e che lo stanno avvitando in una spirale di declino che sembra senza
fine, e stilare dal suo punto di vista una diversa gerarchia della gravità di
tali problemi.
Ma pur nella diversità delle opzioni, un fatto è certo: nessuno di questi
problemi è addebitabile al bicameralismo paritario e alla Costituzione del 1948.
Una classe dirigente che si è rivelata inadeguata a reggere le sfide della
complessità e che si è resa responsabile del declassamento economico e sociale
del paese, ora tenta di scaricare le proprie responsabilità sul capro espiatorio
di una Costituzione del 1948 che nulla ha da spartire con le cause della crisi
economica.
Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di
fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Sì secondo cui il
bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione
delle leggi a causa della navetta tra la Camera dei Deputati ed il Senato,
quando una delle due camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati
dall’altra.
In questa legislatura sono state sino ad oggi approvare 250 leggi di cui ben
200, pari all’80%, senza navetta parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio
di una Camera all’altra, a seguito di modifiche. I tempi medi approvazione delle
leggi sono i seguenti: ogni legge ordinaria viene approvata in media fra Camera
e Senato in 53 giorni; ogni decreto viene convertito in legge dalle due Camere
in 46 giorni; e ogni legge finanziaria passa, con la "doppia conforme", in 88
giorni.
Se una legge si incaglia in parlamento non è per colpa del pur discutibile
bicameralismo paritario: ma dei dissensi politici dentro le coalizioni di
maggioranza. È pur vero che vi sono leggi che invece sono state approvate in
tempi molto lunghi. Ma se si approfondisce l’analisi si comprende bene che le
ragioni di questi tempi lunghi non sono attribuibili al bicameralismo paritario,
ma a ben altre ragioni di ordine politico non sempre commendevoli. La legge
sulla corruzione, per esempio, ha ottenuto il via libera dal Parlamento dopo ben
1546 giorni.
Dunque ricapitolando le ragioni addotte dai sostenitori del Si per sostenere la
necessità di questa riforma non trovano riscontro nella realtà.
Possiamo concludere che non è affatto vero che esiste una crisi di governabilità
del paese che è una concausa importante della grave crisi economica nella quale
ristagniamo?
Non possiamo affatto sostenerlo.
Anzi dobbiamo ammettere che esiste certamente una reale grave crisi di
governabilità che ha causato ed aggrava la crisi.
Quel che merita riflessione, dal mio punto di vista, è che si addebita la crisi
di governabilità alla Costituzione vigente e si tacciono invece alla pubblica
opinione le vere cause strutturali di tale crisi di governabilità, che possono
essere ignote al cittadino comune, che possono essere sconosciute ai tanti
giuristi in buona fede che non conoscono quale sia il reale funzionamento della
macchina del potere oggi, ma che, invece, non possono essere ignote a coloro che
hanno ideato questa riforma.
Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo
scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella seconda
repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda
metà degli anni Novanta del secolo scorso?
La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali siano gli
strumenti indispensabili per governare la politica economica di un paese e che
sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di emettere moneta
e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la
moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività
all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il
potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in
deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite. In
assenza di questa fondamentale cassetta degli attrezzi, non è possibile
governare la politica economica di un paese.
L’esempio più evidente si trae dall’esperienza degli strumenti messi in campo
dall’amministrazione americana per gestire e superare la crisi sistemica
verificatasi dopo l’esplosione della bolla dei mutui subprime.
L’amministrazione statunitense ha contemporaneamente azionato la leva della
potestà monetaria autorizzando la Fed ad iniettare ogni mese 80 miliardi di
liquidità nell’economia reale, la leva della sovranità valutaria svalutando il
dollaro rispetto ad altre monete, la leva infine della potestà di bilancio,
finanziando con il deficit di bilancio statale politiche di spesa per il
rilancio dell’economia. Solo grazie a telai manovre, l’economia statunitense è
uscita dal guado. Veniamo ora al nostro paese. Perché il governo italiano nello
stesso periodo non ha azionato le stesse leve felicemente azionate
dall’amministrazione statunitense? Forse perché ha commesso un errore di
diagnosi? Perché ha ritenuto di dovere seguire un’altra strategia? No,
semplicemente perché non ha potuto.
Non ha potuto perché le tre potestà fondamentali per gestire il governo
dell’economia del sistema Italia – potestà monetaria, potestà valutaria, potestà
di bilancio – non sono più azionabili dal governo italiano essendo state cedute
ad organi sovranazionali: la Commissione europea e la Bce, componenti insieme al
Fondo monetario internazionale della c.d. Troika, santuario del pensiero unico
neoliberista.
In altri termini il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di
governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, come
sostengono i fautori del Si, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il
deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di
un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la
politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad
altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute agli
organi prima menzionati – la Commissione europea, la Bce (e per certi versi il
Fondo monetario internazionale) – privi di legittimazione e rappresentanza
democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece
ai grandi centri del potere economico e finanziario.
Connessione questa dimostrata in modo inequivocabile dalla biografia di tanti
soggetti che in tali organi hanno rivestito e rivestono ruoli decisionali
strategici e che provengono dalle strutture apicali delle più grandi banche di
affari internazionali, o che a fine del loro mandato vengono assunti da tali
banche e da potenti multinazionali come consulenti o top manager.
Non risponde a realtà dunque, come affermano i sostenitori del Si, che la
politica ha perduto il controllo sull’economia a causa dell’ inefficienza delle
procedure decisionali previste dall’attuale Costituzione che, dunque, sarebbe
bene riformare votando Si al prossimo referendum del 4 dicembre.
La politica, o meglio la democrazia, ha abdicato al suo ruolo, quando ha
consegnato gli strumenti della sovranità a ristrette oligarchie arroccate in
centri decisionali impermeabili alla volontà popolare, ma fortemente permeabili
ai diktat dei mercati, o meglio alle potenze economiche che governano i mercati.
Una esemplificazione concreta e recente dei risultati di questa abdicazione
della politica al potere economico e dei modi nei quali oggi viene gestito il
potere reale si ricava dall’esame della lettera strettamente riservata che in
data 5 agosto 2011, il Presidente della Bce inviò al Presidente del Consiglio
dei Ministri italiano, dettandogli una analitica agenda politica delle riforme
che il governo ed il Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche
i tempi e gli strumenti legislativi da adottare.
Dalla riforma della legislazione sul lavoro, alla riforma della contrattazione
collettiva, alla riforma delle pensioni sino alle privatizzazioni e alla riforma
della Costituzione, è una summa del pensiero e delle strategie neoliberiste.
È impressionante verificare a posteriori come quell’agenda politica sia stata
puntualmente realizzata – dalla riforma Fornero sino al Jobs Act – dai tre
governi che si sono susseguiti dal 2011 ad oggi, e da maggioranze parlamentari
composte in larga misura da persone nominate da ristretti vertici di partito.
Quel che appare ancor più significativo è che in quella stessa lettera del 5
agosto 2011, il Presidente della Bce sollecitava anche una riforma della seconda
parte della Costituzione che è stata realizzata nel 2012 nella indifferenza e
nella inconsapevolezza della sua reale portata, della opinione pubblica e del
mondo dei giuristi.
Mi riferisco a quell’art. 81 della Costituzione che ha introdotto l’obbligo del
pareggio di bilancio, norma di matrice culturale neoliberista.
Una norma che ha introdotto un vero e proprio cavallo di Troia all’interno della
cittadella costituzionale, perché impedisce di finanziare in deficit politiche
economiche espansive di tipo keinesiano per superare le fasi di crisi aumentando
la spesa pubblica, ed impone quindi come unica soluzione alternativa obbligata
il taglio della spesa pubblica ai servizi dello Stato sociale, determinando così
l’impoverimento delle masse popolari, la riduzione della loro capacità di spesa,
la caduta della domanda aggregata interna e l’avvitamento della spirale
recessiva.
La vicenda in parola dimostra quanto siano infondate tutte le argomentazioni dei
sostenitori del Si secondo cui la Costituzione va riformata perché quella
attuale rallenta l’iter legislativo e impedisce la governabilità.
Tutte le leggi indicate dalla BCE sono state approvate in tempi rapidissimi con
un doppio passaggio parlamentare. La Salva-Italia di Monti e Fornero fu
approvata in appena 16 giorni.
La legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata
addirittura in cinque mesi (con quattro votazioni Camera-Senato-Camera-Senato).
La vicenda esposta costituisce una concreta esemplificazione del reale modo di
essere del potere oggi e di come oligarchie partitiche insediate al governo e in
grado di controllare il parlamento, possano divenire la cinghia di trasmissione
della volontà politica di centri decisionali esterni ai luoghi della
rappresentanza popolare, attraverso itinerari informali che si sottraggono alla
visibilità democratica.
Quella che ho appena esposto non è solo una vicenda del passato ma è una
simulazione di come sarà esercitato il potere in futuro se questa riforma
costituzionale dovesse essere definitivamente approvata.
Non si tratta di un processo alle intenzioni, non si tratta di dietrologia.
Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si
legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese,
rimediando:
“l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della
governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”
“le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato
contesto della competizione globale”
In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori
e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal Parlamento al
Governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati
per assicurare la migliore consonanza ai diktat della Commissione europea, della
Bce e alle pretese dei mercati.
In nome della esigenza di una totale subordinazione della politica all’economia.
Il migliore inequivocabile riscontro che questo sia il reale obiettivo della
riforma costituzionale, viene dalla sua sponsorizzazione entusiastica da parte
delle più potenti banche di affari internazionali e delle altre cattedrali della
finanza internazionale che in questi ultimi mesi sono scese in campo con tutta
la loro forza di pressione per sostenere il fronte del si, e per intimidire gli
indecisi minacciando sfracelli economici se la riforma dovesse essere bocciata
dai cittadini il 4 dicembre. E mi pare meritevole di riflessione che queste
finalità della riforma benché siano state dichiarate nella relazione che
accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, non siano mai state
utilizzate per sostenere le ragioni del Si nel corso di tutta questa campagna
referendaria. Evidentemente i promotori politici della riforma ritengono
controproducente proclamare a reti unificate che la riforma costituzionale
risolverà tutti i problemi del paese, grazie al fedele esecuzione delle
indicazioni provenienti dalla governance europea.
I Riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra che con
questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca
del primo Novecento quando prima dell’ avvento della Costituzione del 1948, il
potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse
che detenevano il potere economico.
Era il tempo in cui lo Stato non godeva di alcuna considerazione perché era
considerato un instrumentum regni nelle mani dei potenti e la legge, come
insegnava Gaetano Salvemini, non godeva di alcun rispetto perché era percepita
come la voce del padrone.
Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione
del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della
democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è
costata lacrime e sangue, come ci ricorda Piero Calamandrei, uno dei padri della
Costituzione del 1948, le cui parole pronunciate durante i lavori della
Costituente nella seduta del 7 marzo 1947, sono da tenere bene a mente in questo
delicato frangente della storia nel quale dovremo decidere sul futuro del paese,
e mi sembrano le migliori per concludere il mio intervento:
“Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni
giudicheranno questa nostra Assemblea costituente… credo che i nostri posteri
sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata
veramente una nuova storia: e si immagineranno… che in questa nostra Assemblea,
mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi
scranni non siamo stati noi, uomini effimeri i cui i nomi saranno cancellati e
dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi
conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui
patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane,
nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai
giovinetti partigiani [….] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi,
con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il
grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di
questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di
morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A
noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi
chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana,
di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai
poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.
* Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo. Intervento al
Seminario di studi sulla Riforma della Costituzione svoltosi al Palazzo di
Giustizia di Palermo il 22 novembre 2016 .
(24 novembre 2016)