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L’enigma del ‘tapering’: le mani della Bce sulla politica

 

di Raro
 

da  www.micromega.net

(24 dicembre 2016)


Mentre Draghi annunciava in conferenza stampa la riduzione degli acquisti di titoli pubblici che si realizzerà a partire da aprile, gli addetti ai lavori hanno immediatamente interpretato le decisione come un segnale del cosiddetto ‘tapering’, un progressivo ma inesorabile ‘assottigliamento’ dello stimolo monetario prodotto in questi anni per garantire la quiete sui mercati. Se così fosse, staremmo assistendo all’inizio della fine del quantitative easing e al ritorno della Bce entro il perimetro delle politiche monetarie convenzionali. Draghi, però, sembra pensarla diversamente.

Proprio durante la conferenza stampa, il governatore ha interrotto i giornalisti che lo interrogavano in merito chiosando: “per tapering si deve intendere la tendenza a zero degli acquisti, e tale tendenza non è stata discussa all’interno della Bce; per la verità, la questione non è mai stata neppure presa in considerazione.” Per Draghi, dunque, la diminuzione degli acquisti non deve essere vista affatto come l’inizio di un processo che porterà ad azzerare gli afflussi di liquidità: nessuna uscita di scena della Bce, almeno secondo il suo governatore. La provocazione di Draghi sembra essere caduta nel vuoto: tra gli investitori ha prevalso lo scetticismo verso questa curiosa precisazione, come se il governatore stesse semplicemente giocando con le parole per addolcire l’amara pillola della stretta monetaria appena annunciata. Ma siamo certi che le parole di Draghi non vadano, invece, prese sul serio? L’opinione oggi prevalente si concentra sull’albero, la singola manovra sulla liquidità, ed ignora la foresta, ossia la più ampia strategia entro cui la banca centrale sta esercitando, in questi anni, la sua autorità monetaria. Un’architettura che ha le sue fondamenta, come mostreremo, proprio negli acquisti di titoli del debito pubblico. Dietro alla sibillina puntualizzazione di Draghi e all’enigma di un tapering ipotizzato da tutti meno che dal diretto interessato, traspare una strategia di lungo respiro che porterà la banca centrale a rafforzare la propria influenza su mercati e governi.

Partiamo dal contesto. Italia, estate 2011. Un attacco speculativo travolge il debito pubblico del paese provocando un repentino aumento dello spread e si trasmette alle quotazioni bancarie, facendo vacillare l’intero sistema. Al culmine dell’instabilità finanziaria si insedia un governo tecnico che conduce il paese sulla via dell’austerità; solo allora la Bce interviene – acquistando i titoli pubblici italiani tramite il Securities Markets Programme – e ristabilisce la calma sui mercati. La chiamano disciplina dei mercati, ed è servita all’autorità monetaria per imporre l’austerità in Europa: quando un governo si dimostra restio a seguire le regole della globalizzazione, ossia in buona sostanza a contenere spesa pubblica e salari, i mercati finanziari gli infliggono tassi dell’interesse sul debito pubblico punitivi; la banca centrale ha il potere di ristabilire l’ordine, ma lo esercita solo quando il paese indisciplinato torna sulla retta via. È la frusta dello spread e serve a controllare la politica, come dimostra – dati alla mano – l’OCSE, che ha addirittura elaborato un apposito indicatore (Reform Responsiveness Index, RRI) per misurare con precisione il grado di adesione di un paese al percorso di riforme indicato, da Parigi, dagli alfieri della globalizzazione.

Nel rapporto Going for Growth 2012 l’OCSE commentava così la tendenza alla crescita dell’indice RRI nell’eurozona: “dal 2010 si rileva una considerevole accelerazione nell’attuazione delle riforme strutturali sia nei paesi direttamente colpiti dalla crisi europea del debito che in quelli che hanno sperimentato tensioni sugli spread” [1]. I dati OCSE certificano che il ricatto dello spread ha funzionato, almeno nei primi anni della crisi. Poi, qualcosa è andato storto: già nel 2015 il rapporto Going for Growth denuncia infatti l’affievolirsi di quello che chiama “effetto facilitante della crisi sulle riforme”, segnalato da una riduzione dell’indice RRI. Non appena ripristinata la stabilità finanziaria, la pressione dei mercati sui governi viene meno e, con essa, la disciplina. L’OCSE lo dice apertamente: “l’immediato post-crisi e le connesse pressioni sui mercati finanziari, in particolare l’impennata dello spread sul debito pubblico, hanno accelerato le riforme. L’attenuarsi di queste tensioni riduce tale pressione” [2] rallentando l’affermazione delle politiche di austerità e delle connesse riforme strutturali. Ma cosa può aver inceppato questo straordinario meccanismo di disciplinamento dei governi da parte dei mercati?

Parte della risposta ce la fornisce un recente lavoro di ricerca della Banca d’Italia [3], dove si mostra che la crisi che ha colpito l’Italia nel 2011 ha avuto effetti tutto sommato contenuti grazie all’azione di alcuni particolari anticorpi: i titoli pubblici accumulati nella pancia del sistema bancario italiano. Gli attacchi speculativi scatenati contro il debito pubblico italiano non hanno minacciato solamente lo Stato, ma anche e soprattutto i suoi creditori. Le statistiche ci dicono che le sorti del sistema finanziario italiano sono strettamente legate alla tenuta del debito pubblico per un semplice motivo: più di una attività ogni dieci presenti nel portafoglio delle banche italiane è un’obbligazione emessa dal nostro settore pubblico, e se restringiamo il campo alle attività liquide, quelle rilevanti per testare la solidità di una banca, notiamo che i titoli pubblici italiani costituiscono più del 150% del capitale Tier 1 delle istituzioni creditizie del nostro paese. Se cade il debito pubblico va in frantumi il sistema bancario privato, perché una parte troppo consistente della sua attività dipende dalla salute del debitore pubblico.

Nel 2011, racconta la Banca d’Italia, gli attacchi speculativi provengono fondamentalmente dall’estero: banche e società d’investimento straniere hanno svenduto in massa titoli pubblici italiani facendone crollare le quotazioni e danneggiando, per quella via, l’intero sistema finanziario privato del paese. Che ha reagito. Lo studio della Banca d’Italia illustra con dovizia di particolari la levata di scudi delle banche italiane, che sono passate da un aumento annuo dell’1% degli acquisti di titoli pubblici italiani nel periodo 2004-2007 al 20% durante la crisi degli spread. Vere e proprie barricate contro gli assalti della speculazione per difendere – beninteso – non tanto la patria quanto piuttosto i propri bilanci, che di patrio debito traboccano. Quel che conta è che il dispositivo della disciplina di mercato ha incontrato un ostacolo nel legame tra debito pubblico e settore bancario, non solo in Italia ma in tutta la periferia europea: la frusta dello spread ha potuto colpire, ma solo fino ad un certo punto perché ha suscitato la reazione compatta delle banche domestiche.

Spezzare il legame tra banche e debito pubblico è divenuta così una delle priorità delle istituzioni europee, un passaggio necessario per imporre ai governi la disciplina dei mercati senza coinvolgere nello scontro i sistemi bancari nazionali. I titoli pubblici accumulati nella pancia delle banche, quegli anticorpi che nel 2011 hanno garantito la tenuta del sistema finanziario italiano mentre infuriava la speculazione, finiscono per essere definiti dall’economista tedesco Daniel Gros addirittura come dei “virus” che compromettono la “effettiva operatività della disciplina dei mercati” [4]. Alla stessa maniera, la convergenza di interessi tra debitore pubblico e creditori privati, che secondo il governatore della Banca d’Italia Visco ha “tutelato la stabilità finanziaria” durante la crisi degli spread, con le banche italiane che “acquistavano i titoli pubblici proprio mentre gli investitori stranieri li svendevano” [5], viene ad essere considerata da un altro economista tedesco, Markus Brunnermeier, un “circuito diabolico” [6] da rompere per ristabilire la disciplina dei mercati. Le parole sono importanti, ed il linguaggio di questi economisti vicini alle istituzioni europee lascia intendere la crociata in atto contro il legame tra banche e debito pubblico.

A guidare l’assalto è la francese Danièle Nouy, presidente del Meccanismo Europeo di Vigilanza Bancaria (SSM) istituito di recente presso la Bce. La nomina della Nouy, voluta da Draghi per tenere le redini della supervisione bancaria in Europa, non è stata casuale: fu proprio lei, già nel 2012, a prendere di petto la questione del nesso tra sistemi bancari e titoli pubblici [7] proponendo una drastica soluzione, l’introduzione di un tetto, al 25% del capitale Tier 1, alle obbligazioni statali di ciascun paese acquistabili dalle banche. Sarebbe una vera e propria “rivoluzione”, a detta della Nouy, e in effetti la misura avrebbe un impatto devastante sul sistema bancario, che oggi detiene una quantità di titoli quasi sei volte maggiore del limite suggerito: secondo una stima del vicepresidente della Bce Constancio, quel tetto costringerebbe le istituzioni creditizie europee a liberarsi di più di 1.600 miliardi di euro di titoli pubblici, e le banche italiane sarebbero le più colpite. A prima vista, il piano appare irrealizzabile: come convincere le banche a suicidarsi, cioè a svendere una tale quantità di titoli così rilevanti per i loro stessi bilanci?

La soluzione al dilemma è sotto gli occhi di tutti. Dal marzo 2015 la Bce ha iniziato ad acquistare titoli pubblici dal settore bancario, facendosi garante del processo che punta a recidere il legame tra banche e debito pubblico. Grazie agli acquisti della Bce, quella che poteva risolversi in una colossale svendita del debito pubblico europeo si sta realizzando, in tempi più dilatati, come un’ordinata liquidazione dei titoli da parte delle banche in favore dell’autorità monetaria, che secondo i programmi arriverà a detenere 1.800 miliardi di euro di debito pubblico entro la fine del 2017, una cifra che si avvicina molto alle previsioni di Constancio: la Bce sta acquistando quello che le banche sono costrette a vendere. Ma il processo è lungo e delicato, perché questa transizione deve essere realizzata gradualmente, senza provocare traumi per il settore bancario europeo. E occorrerà attendere almeno il 2020, si ritiene, per assistere ad una significativa riduzione del grado di esposizione delle banche verso il debito pubblico.

Serve tempo, dunque, ed ecco finalmente spiegate le parole enigmatiche di Draghi sul tapering, ecco rivelato perché la Bce non ha nessuna intenzione di farsi da parte nei prossimi anni. Gli acquisti della banca centrale non possono fermarsi perché sono lo strumento scelto per spezzare il nesso tra titoli pubblici e sistema bancario, un passaggio chiave per ristabilire il controllo dell’autorità monetaria sui governi. Lungi dal defilarsi, la Bce resterà al centro dei mercati finanziari con i suoi acquisti ancora per molto, fin quando il meccanismo di disciplinamento che opera attraverso lo spread non sarà reso pienamente efficace dal superamento del legame tra debito pubblico e credito privato. Draghi, quindi, parlava sul serio: l’interruzione del quantitative easing non è mai stata presa neanche in considerazione dalla Bce. Perché il programma di acquisti rappresenta la testa di ponte di un ambizioso disegno egemonico dell’autorità monetaria in Europa: tramite il debito pubblico accumulato nei suoi conti, la banca centrale mette le mani sulla politica europea per imporre l’austerità a colpi di spread, e senza incontrare il veto del settore bancario.

NOTE

[1] OCSE, 2012, Going for Growth, p. 17.

[2] OCSE, 2015, Going for Growth, p. 23.

[3] Banca d’Italia, 2016, Gli acquisti di titoli pubblici da parte delle banche italiane durante la crisi: il ruolo delle condizioni di bilancio, Occasional Paper n. 330.

[4] Daniel Gros, 2013, Banking Union with a Sovereign Virus: The self-serving regulatory treatment of sovereign debt in the euro area, CEPS Policy Brief No. 289.

[5] Ignazio Visco, 2016, Banks’ Sovereign Exposures and the Feedback Loop Between Banks and Their Sovereigns.

[6] Markus Brunnermeier e altri, 2016, The Sovereign-Banking Diabolic Loop and ESBies.

[7] Danièle Nouy, 2012, Is sovereign risk properly addressed by financial regulation?