Sulle tracce di Dio - Introduzione al libro di Genesi
Di Franco Barbero
sbobinatura e adattamento non rivisti dall’autore
In “cdb informa” n° 59 settembre 2014
In comunità avete letto altre volte Genesi e allora vi risparmierò una parte dei suggerimenti, delle impostazioni e notizie di base per chi lo legge per la prima volta.
Cercherò invece di suggerirvi qualche strumento aggiornato per questa nuova lettura. Una prima riflessione che farei è che l’homo sapiens, intendendo la donna e l’uomo che diventano consapevoli di sé, non cessa d’interrogarsi sull’inizio e sulla fine. Sin dalle prime documentazioni che abbiamo, non ha mai cessato di ragionare sull’inizio e sulla fine di tutte le cose e di sé. Il teologo Rahner diceva: “il dove, come, quando”. Abbiamo radicato dentro di noi degli interrogativi: donde vengo?, donde vado? che ne sarà di me, ecc. Queste domande sembrano insopprimibili, anzi paiono proprio qualificare la nostra vita e diremmo che è l’homo “insipiens” quello che non si interroga. Non è tanto e solo un sapere ma è un porci quesiti di continuo.
La sophia, il sapere latino, era il concetto di chi dà sapore alla propria vita perché la guarda in profondità, si pone gli interrogativi, le domande essenziali, non le elude. Io credo che questa sia la sophia, anche nel concetto biblico espresso nel libro della Sapienza, dove essa è addirittura una figlia privilegiata di Dio.
Quello che noi troviamo nelle culture antiche è molto ben documentato nei “racconti dell’inizio” di una grande teologa che molto vi raccomando: Van Wolde. Questa studiosa olandese nel suo libro “Genesi 1-11 e altri racconti della creazione” Ed. Queriniana, in fondo al volume raccoglie una serie interessante di racconti di culture antiche, asiatiche e africane, sulle origini. Narrazioni che esprimono le domande fondamentali: Donde veniamo? Donde viene la sessualità? Come mai c’è il dolore? Che sarà dopo? Che c’era prima? Questi interrogativi sono un’esplorazione continua; le risposte non sono mai la “fotografia” della realtà, ma delle riflessioni sul vissuto. Il dato sapienziale non è un racconto cronachistico, non è un resoconto, ma il tentativo, attraverso l’immaginazione creativa, di dire quello che abbiamo capito e che stiamo cercando della vita, quello che ci lascia inquieti, quello che abbiamo sentito narrare dai nostri progenitori. C’è una grandissima ricchezza nell’umanità pre-biblica, extra-biblica, coeva della Bibbia.
Il Primo Testamento non farà su questo tutto da solo, ma raccoglierà, con una ricchezza straordinaria e con una libertà assoluta, le tradizioni precedenti, non butterà via nulla. Di tutti i racconti “della mezzaluna fertile” la Bibbia tenterà di raccogliere il fior fiore. Nel Testo Sacro trovate di tutto. Chi ha letto Gilgamesh sa bene che lo si incontra anche nella Bibbia, alcuni racconti sono “parenti”. Ma basterebbe aver letto l’Iliade, l’Odissea per capire che alcuni pensieri, alcuni interrogativi tornano sempre, dal De rerum natura di Lucrezio fino al libro biblico della Sapienza, c’è una parentela.
Una delle caratteristiche che il “chiasso odierno”, per dirla con Massimo Recalcati, tenta di far scomparire dalla nostra vita sono le domande: Da dove vengo? Che ci sto a fare? Dove vado? Provando a dire con parole mie cosa egli intenda per “il chiasso della vita” individuo due componenti: 1) precipitarti nella goduria del piacere che riesci a prendere subito, nell’immediato; 2) immergerti in questo infinito mondo delle notizie, delle cose, degli oggetti e riempire così la tua interiorità di vuoto. Fare in modo che l’uomo e la donna degli oggetti non si interroghino, perché porre delle domande diventa pericoloso per chi governa, ma anche per sé, perché poi bisogna mettersi in cammino: se c’è un interrogativo devo pur cercare, tentare una risposta.
Per comprendere il mondo, la realtà, noi oggi abbiamo una scienza che guarda, studia, ragiona, dimostra, tenta di parlarci della successione degli eventi, dell’organizzazione della materia. In questo senso occorre fare una grande lode alla scienza che ci dà dei significati e dei resoconti, ma non ci dà il senso, esso è ancora un’altra cosa!
Noi accostandoci alla Bibbia troviamo immediatamente la novità dei racconti in essa contenuti; tutto il Testo è una grande narrazione che descrive le speranze, le delusioni, le gioie e sono le voci dei nostri progenitori. In realtà eravamo abituati a dire: “i patriarchi”, “le matriarche”, ma Adriana Valerio, nel suo bel libro Le ribelli di Dio edito dalla Queriniana, ci suggerisce di usare il termine di “genitori”, “proto-genitori”. La Bibbia ha questo grande problema al quale vorrei accennare: è una montagna in cui l’oro va cercato, non è un piatto pronto. E’ una miniera di diamanti, che vanno cercati e per farlo devi entrare nel codice dei linguaggi del mito, dell’immagine. E’ quasi un rubare i sensi reconditi della Bibbia e lo dico non per scoraggiare, tutt’altro! ma perché c’è un problema che voglio evidenziare. Quando noi ascoltiamo o leggiamo la Bibbia, anche attraverso la predicazione, la catechesi, ci accorgiamo che manca “il ponte”, per fare questo collegamento occorre sapere cos’è il genere letterario e conoscere la distinzione fra questo e il messaggio. Qual è l’ “inghippo” della nostra tradizione cristiana? E’ che sovente leggiamo la Bibbia come un resoconto anziché come un racconto mitico, mitizzato, portatore di profondissime verità. Ci siamo fermati ad una lettura come quella del giornale. La lettura biblica non ha più dei narratori, ha dei ripetitori: la catechesi funziona da ripetizione. La Bibbia viene sovente interpretata in questo modo, semplicemente ignorando il codice del racconto; così il testo sacro diventa dottrina o dogma. Adriana Valerio dice che bisogna fare prima di tutto un’opera di “de-automazione”. Quando leggiamo il racconto di Adamo ed Eva facciamo scattare un meccanismo, quello della nostra lettura precedente; “de-automatizzarci” è un’operazione difficile perché bisogna dire: “dunque io l’ho sempre sentita in questo modo, ma sarà proprio così?”. Bisogna porre un freno alla nostra “voluttà” interpretativa, che subito si precipita sul testo a dire: “è così, significa questo”. E’ un’operazione difficile, ma esige soprattutto che io abbia il sospetto che la mia lettura precedente possa essere discussa, che io sia capace di conoscere un po’ i miei meccanismi, quelli che scattano e che la predicazione, la catechesi, sovente rinforzano. Devo costruirmi altri strumenti interpretativi, alternativi, che mi possano far dire: “ah! ma ci sono anche altre voci, altri pareri, altri modi di leggere!”.
Come leggerete nei commentari che userete, Genesi fa parte del Pentateuco. I racconti che la narrano hanno origine da quattro fonti diverse che voi conoscete bene: la fonte yhavista, la fonte eloista, la fonte deuteronomista, la fonte sacerdotale. Genesi 1 è la fonte più recente, Genesi 2 invece è la fonte più antica. E’ importante sapere che prima queste tradizioni si tramandavano oralmente. E’ quando c’è la sosta, sofferta ma anche speranzosa della deportazione a Babilonia, che nasce il Pentateuco, la cui scrittura ufficiale avverrà nel dopo esilio, nel VI secolo. Le fonti che partono dal X secolo e quelle del IX e VIII vengono ripensate, rimescolate, rimesse in discussione, rilette a Babilonia. L’ottica dell’esilio è quella che ha la caratteristica sapienziale: che cosa ci è successo che siamo qui? come possiamo andare avanti? Perché il Dio del patto, della fedeltà vuole che noi progrediamo. E’ nell’esilio che l’uomo, la donna, le creature, l’origine, la fine, il posto che abbiamo nel mondo, tutto questo diventa fondamentale. Dio continua a creare; solo l’uomo e la donna sono immagine di Dio, ma tutto sta nella relazione: ecco il pensiero dominante! Il primo giorno, il secondo, il terzo, … l’uomo, la donna, Noè, Caino, Abele, ... la relazione a volte è messa in crisi, attraversa momenti drammatici, ma non finisce mai. In Genesi Dio continua a creare, a sostenere la sua creazione, ad accompagnare: Caino e Abele sono quello che sono, ma non importa! Noè, le tradizione sul diluvio, tutto sembra finire, ma non la storia, essa non ha termine, perché il patto Dio lo tiene in mano, la storia non si conclude. Tutto sta nella “relazione”, ma la relazione cos’è? E’ la beraka, la benedizione. Stare nella relazione significa che non possiamo uscire dalla benedizione di Dio.
Merita conoscere alcune letture che sono state fatte dei capitoli 1 e 2 di Genesi: 1°) la lettura eco-teologica, contro quella semplicemente antropocentrica dove tutto era al servizio del dominio maschile, mentre la Bibbia non parla di potere, ma di responsabilità; 2°) la lettura femminista, contro una interpretazione maschilista.
Ma qual è l’elemento che ha pervaso poi la coscienza ecclesiale? Come sono interpretati Genesi 1 e 2? Sono stati letti soprattutto nel brano di Adamo ed Eva, e qual è stata la spiegazione che ne è venuta fuori? Scrive Tertulliano (siamo ancora nel III secolo): “tu sei la porta del demonio, tu hai mangiato dell’albero proibito, tu per prima hai disubbidito alla legge divina, tu hai convinto Adamo, perché il demonio non era abbastanza coraggioso per attaccarlo, tu hai distrutto l’immagine di Dio; l’uomo, a causa di ciò che hai fatto, il figlio di Dio è dovuto morire”. Eva è stata vista poi, da sempre, come la tentatrice e nel libro di Siracide si dirà che il peccato è entrato nel mondo attraverso la donna. Questa sarà la tradizione che subentrerà nelle chiese cristiane. Sono molto belle le pagine di Adriana Valerio dove descrive che cosa ha detto Agostino d’Ippona. Per lui il peccato si trasmette attraverso un atto di intimità sessuale; il concepimento di un figlio o di una figlia è marcato dal peccato; quindi voi immaginate: ogni essere umano nasce segnato dal peccato. In qualche modo Agostino fraintende totalmente Paolo, il quale aveva detto che attraverso un uomo è venuto il peccato; ma non parlava del “peccato originale”, che non esiste nell’ebraismo! Semmai esiste il “peccato universale” cioè che tutti e tutte siamo creature dentro una condizione di fragilità e di peccaminosità. Ma anche all’interno del cristianesimo non tutti furono d’accordo; da sempre c’è stato chi ha detto: - nasce un bambino e la prima cosa che pensate è fare in modo che gli cancelliamo un peccato! -. Ma la dottrina diventò talmente pressante che la macula originalis è stata quella che ha condizionato tutta la teologia. Il battesimo acquisì questo significato e questo linguaggio: cancellare il peccato originale, dimenticando invece che, nella dottrina paolina e agli inizi del cristianesimo, il suo significato era quello di inserire nella comunità dei credenti, cioè rappresentava un segno di partecipazione. Questo ha lasciato un trauma dentro la cristianità.
Un simile modo di vedere è entrato nella peculiarità del pensiero patriarcale: la donna è una tentatrice; c’è qualcosa nel cuore e nel corpo della donna che spinge al male. Questo è stato il concetto della prima ascesi cristiana del II secolo, di matrice molto platonica, in cui il corpo era la parte degenere. Successivamente diventò una tradizione terribile ed ecco perché nacque, nel V secolo, la prima proposta del celibato dei ministri.
Ancora oggi devo dire che, negli incontri che faccio con i giovani, trovo che la fede viene vissuta come un tirarsi indietro dalla vita, quasi un aver paura del vivere, mentre invece la Scrittura non ha questo obiettivo. Per esempio, Eva era quella che aveva spinto Adamo a trasgredire perché aveva intuito che di lì passava la loro crescita come esseri umani, se no sarebbero restati nel gioco di un “paradiso”, sarebbero stati “nell’erba fresca” tutta la vita, nell’infanzia. Invece che cosa fa Eva? Dice ad Adamo: “Vai, prendiamo il frutto!”. E’ l’impeto, l’impulso alla conoscenza. Essere cacciati dall’Eden è l’unica maniera per andare incontro alla vita. Se non usciamo dal ventre di nostra madre, non camminiamo verso la vita, se non superiamo l’infanzia, non sviluppiamo la nostra esistenza. Transire vuol dire andare oltre, muovere dei passi in avanti. Questa non è una lettura femminista, ma dei rabbini d’Israele. Una parte di loro disse: “noi siamo debitori ad Eva perché ci ha fatto crescere, altrimenti rimanevamo nella situazione di immaturi”. Guardate quale possibilità diversa c’è di lettura: nella tradizione Eva è diventata, non colei che ti spinge alla maturità, alla crescita, ma chi ti seduce.
E il serpente chi poteva rappresentare? Poteva raffigurare una buona idea, un’opportunità di Dio, che voleva spingere l’umanità, vedere se ce la faceva ad uscire dall’infanzia. Qualcuno sostiene che, in realtà, il simbolo del serpente era la divinità di un popolo vicino. Come è bello sapere che non si tratta di una “caduta originale”, ma della vocazione dell’uomo e della donna a crescere! E non ci si evolve se non attraverso le contraddizioni, le trasgressioni, gli errori.
Non si diventa fratelli se non c’è Caino ed Abele, ma nessuno viene abbandonato, nemmeno Caino. Non c’è la possibilità di essere fratelli e sorelle, non si diventa adulti, non si cresce se non incontri anche il contrasto, se non osi dirti la difficoltà, la violenza che c’è nelle relazioni, quella che è la nostra umanità.
E il diluvio? Il mito ebraico, la tradizione rabbinica dicono che le cose sono partite nella benedizione, ma la contraddizione non è stata eliminata. Non bisogna mai leggere la benedizione di Dio come qualche cosa che elimina il concreto, perché anche Dio ha avuto la sua sofferenza e il suo pentimento: un giorno si è pentito di aver creato. Belle le pagine di Paolo De Benedetti su questo Dio che si pente, però si converte di nuovo alla benedizione. Dice Dio: “Ho deciso di non rimanere solo? Guarda in che compagnia mi sono trovato! Però questa è la compagnia; se io voglio continuare a creare a dare vita, la vita è questa!”.
Ci sono innumerevoli leggende e racconti che commentano queste pagine. Come quella che dice che la sera dopo la creazione dell’uomo e della donna, gli angeli e gli arcangeli, i serafini, i troni e le dominazioni vedono Dio un po’ impensierito lassù nell’alto dei cieli, tutto solo, (la trinità non l’avevano ancora inventata). Gli dicono: “Te l’avevamo detto, potevi startene così bene qui con noi, che non facciamo rumore, non ti disturbiamo, siamo puri spiriti!”. Dio risponde: “Sapeste come mi avete annoiato! Io amo la materia! Andate via, io voglio piangere questa sera per il male della terra, ma contento di averla creata!”.
E’ quello che noi chiamiamo la contraddizione che esiste in Dio: il Dio biblico è un Dio appassionato, un Dio passionale; in qualche modo sembra dirci: “Mi raccomando, appassionatevi a qualche cosa”.
E Abramo, il mito di Abramo, la tradizione di Abramo è lo sradicamento continuo. Certo, né Noè né Abramo sono mai esistiti come figure storiche, sono dei personaggi creati, sono delle esperienze vissute. Israele ha condensato in Abramo la vicenda storica concreta, difficile, dello sradicarsi continuo. Abramo è il simbolo di colui che obbedisce a Dio, lascia la sua terra, la sua famiglia, la sua patria. Bisogna continuamente sradicarsi. Abramo è la condensazione storica, in questa figura mitica, dell’esperienza dello sradicamento. Se tu non guardi oltre, se non osservi le stelle, se non ti avventuri, se non sai deciderti ad andare dove non conosci, la tua vita non produce nulla. Abramo è parabola del popolo; viene chiamato il primo patriarca, metafora di Israele che continuamente dovrà cercare, immagine del pio ebreo credente. Dicono alcuni studiosi che forse è parabola dell’uomo e della donna, che incessantemente devono continuare a pensare al cammino: c’è sempre qualcosa oltre, c’è sempre una voce da ascoltare. Questo è di una bellezza incredibile! Tutta la vita è un continuo muoversi, alla ricerca delle tracce di Dio.
Ognuno di noi faccia il conteggio della propria esistenza, dei propri anni, delle proprie esperienze, ma che cos’è che ci ha accompagnato? La ricerca! Non l’aver raggiunto chissà che cosa, ma la ricerca di Dio, la ricerca di capire il messaggio di Gesù, la ricerca di essere un uomo, una donna onesti, di essere solidali. La ricerca: di questo pane viviamo ogni giorno. Sappiamo pure che è un travaglio, ma è anche ciò che ha dato senso alle nostre piccole vite.
E Giacobbe che lotta con Dio? Ma poi c’è la scala di Giacobbe, tra il cielo e la terra! Con Dio bisogna lottare, però c’è una continua comunicazione, “gli angeli che scendono e salgono”. La relazione con Dio non è mai un rapporto imbambolante. Con Dio si deve pur lottare, con Dio non si fa mai pace: “C’è troppa ingiustizia su questa terra! Tu sei il creatore, il liberatore!”. Non c’è mai pace con Dio eppure c’è sempre la bella metafora degli “angeli che scendono e salgono”. Non si rompe nulla; si rimane in una relazione che continuamente ti mette in crisi, che sempre ti dà pace, ma anche t’inquieta. Gli scrittori, gli ebrei che hanno vissuto la shoah sono stati maestri di questa lettura della Bibbia.
E tutte le figure delle saghe! Rebecca, Sara, Isacco. Innanzitutto è giusto, è un atto d’onestà dire che ci sono i patriarchi e le matriarche, che sono i genitori d’Israele. Che cosa è avvenuto? È accaduto che nella lettura esegetica tradizionale queste donne sono state obliate - questo va riconosciuto, va detto - tali donne sono state molto sminuite ed è stata la lettura di genere, femminile, che ha ridato innanzitutto visibilità, ha ripristinato la loro presenza e la loro compartecipazione, spesso audace ed egualitaria, nella vita d’Israele. Ristabilire, dentro una cultura certamente patriarcale, la comprimarietà di queste donne è una lettura di estremo interesse.
Dobbiamo riprendere queste pagine, riviverle dentro il rapporto di Israele con Jahvè, che è il Dio della creazione, della relazione. E quale relazione con Lui? Turbata, costante, ininterrotta; noi chiudiamo il capitolo, Egli lo riapre. La fede d’Israele ci trasmette non delle risposte ad ogni uso, ma ci ricorda che il patto Dio non lo dimentica, non lo ritira. L’umanità, tutte le creature stanno in questo abraccio, sovente così misterioso, così invisibile, così deludente per chi ne registri la effettività storica, ma un abraccio reale.
Che cosa fa il credente che legge Genesi? Le saghe e i miti, come dice bene Paolo De Benedetti, sono come degli oggetti che hanno tanti angoli, nessuno cerchi l’unico significato, ognuno cerchi i vari sensi. Sovente nella vita un racconto ti dice A, dopo ti dirà B, poi C, perché il mito è sferico, rotola, si svolge, ci viene accanto, ci parla in maniere diverse. Se io voglio leggere l’episodio di Abramo in una chiave sola, in quell’unica, ne faccio una dottrina; se lo prendo come un mito, mi parlerà nelle diverse stagioni della vita, in un modo ricchissimo.
Nella Bibbia, che è testimonianza umana di uomini e donne che hanno vissuto la fede, ci viene incontro Dio, ma Egli ci viene incontro se noi lo cerchiamo come Dio che ci parla, non dandoci magicamente delle risposte, ma invitandoci all’incontro. Genesi è fatta per trovare il Dio della creazione, non solo per parlare di Lui ma per parlare con Lui. La nostra meravigliosa fede ci dice questo: che Dio ci accompagna in modo invisibile, ma ci chiama ad un colloquio, a studiare, ad agire, a non dimenticare che l’amore va espresso nella parola, nella preghiera, nella riflessione, nello studio.
Leggere la Bibbia da solo o da sola è un’impresa! Che fortuna abbiamo noi! Ringraziamo Dio di cuore di poterla leggere insieme. Se io non avessi avuto le comunità, i gruppi, non avrei potuto leggere la Bibbia. L’aver incontrato donne e uomini che leggono la Bibbia, che cercano sulle tracce di Dio, è la cosa più bella che si possa dire, è una cosa straordinaria, perché quello che Dio dice a te, nel tuo cuore, nella tua esperienza, non lo dice a me e ti ascolterò volentieri, perché nella tua esperienza c’è qualcosa della luce di Dio .
Non dovremmo perdere questa cosa grande che all’inizio delle Comunità Cristiane di Base fu preziosa e che spero non si spenga mai: la passione biblica! Ma dovremmo portare questo in tutta la Chiesa; dappertutto dove possiamo, invitare le persone a ritornare al testo, a fare questa operazione con fede. Il tesoro della parola di Dio ci parla ancora, è il luogo dove Dio ci aspetta per un appuntamento! E ad un appuntamento si va con il cuore in mano.