Introduzione al vangelo di Giovanni
di Franco
Barbero
Sbobinatura di alcuni incontri al corso biblico di Torino ed a Chieri. Testo non rivisto dall’autore
In “cdb informa” n° 66 giugno 2017
Conoscere ogni vangelo nella sua unicità è una cosa importante, l’originalità di ciascun testo è un elemento che caratterizza una lettura. Ognuno è la testimonianza di un percorso che sta alle sue spalle, di gente che ha riconosciuto in Gesù il Messia. L’esperienza di Giovanni non è quella di Marco, di Matteo o di Luca. Occorre uscire ampiamente dall’impianto catechistico dogmatico, perché il suo vangelo è quello più usato e più abusato. Noi abbiamo nella liturgia tre cicli: Marco, Matteo e Luca ma, in realtà, tra un passo e l’altro s’insinua Giovanni, che è il più letto nei momenti chiave della Pasqua e del Natale e ne segna l’interpretazione dogmatica.
Questo vangelo è la magna carta dei fondamentalisti. L’esegesi tradizionale lo considera il più spirituale ed elevato rispetto agli altri tre, in realtà il suo messaggio è stato ampiamente travisato.
Ci troviamo davanti ad uno
scritto che ha una sua identità preziosa. Gesù è situato soprattutto in Giudea,
a differenza di Marco, Luca e Matteo che lo collocano prevalentemente in
Galilea. Fa almeno tre viaggi a Gerusalemme e non uno solo come con gli altri
tre evangelisti, tutto gravita verso Gerusalemme.
I sinottici citano una trentina di
fatti miracolosi, mentre questo vangelo ha sette “segni”. Il “segno”
sembra indicare una strada nell’interpretazione: non è tanto un racconto
cronachistico, ma piuttosto un’allusione ad un significato. Giovanni non conosce
affatto le parabole, ma ha le allegorie: il buon pastore, la vite e i
tralci.
Questo testo ha lunghi, organizzatissimi discorsi ieratici, solenni,
completamente elaborati in funzione della teologia dell’evangelista. Con una ben
nota finzione retorica, molto usata nell’antichità, il redattore mette in bocca
a Gesù, al protagonista, quello che vuole dire alla sua comunità.
Mancano in modo totale gli esorcismi. Se non lo si annota prima, nella lettura
sfuggono questi particolari. Ci sono parole che ricorrono sempre, con una
frequenza che si direbbe ossessiva: verità, vita, mondo, amore, giudicare,
testimoniare, luce, tenebre e sono dentro le allegorie. Mancano dei pezzi
estremamente significativi degli altri evangeli, per esempio: l’istituzione
dell’eucaristia, le beatitudini, il padre nostro, non c’è nulla dell’infanzia di
Gesù; anche Marco, però, non ha i racconti dell’infanzia.
Questo Vangelo ha una premessa: l’inno del cap. 1,1-18, in cui il redattore usa
il linguaggio mitico del tempo. Si tratta di un inno come "mito
dell'incarnazione del logos", che va letto alla luce dei miti preesistenti, sia
giudaici, come l'inno alla "Sapienza" di Proverbi 8, 21-32, sia gnostici. Si
ricordi che, per il filosofo giudeo-ellenista Filone d'Alessandria, il Logos era
"l'immagine di Dio, il Primogenito di Dio ed il Secondo Dio". Giovanni ha
compiuto un'opera originale, con linguaggi e materiali largamente preesistenti,
per esprimere l'unità mistica che la vita umana può concretamente realizzare con
Dio.
Il suo modo di presentare Gesù è proprio diverso da quello dei sinottici, tende a definirlo: il Cristo è la via, la verità, la vita. Marco, Luca e Matteo amano invece narrare i suoi comportamenti, le sue opere. Il quarto evangelista ha costruito delle lunghe narrazioni anche affascinanti, coinvolgenti: penso al cap. 4, al cieco nato, a Lazzaro, ma quando arriva a Gesù ha la voglia di definirlo, di darci un identità: “io sono il buon pastore, la vera luce, la via, la verità, la resurrezione”, ecco le allegorie. Esse hanno però un punto terminale in “io sono”, di origine anticotestamentaria, per esprimere il mutuo abitare della volontà di Dio in quella di Gesù e della volontà di Gesù in quella di Dio.
Particolarmente sul terreno della cristologia Giovanni oscilla tra una concezione che fa di Gesù un mezzo Dio e l’aperta dichiarazione della totale dipendenza del Nazareno da Dio. L'appellativo "divino" e il titolo "figlio di Dio" sono, nella Bibbia, assai diffusi ed assumono significati diversi. Essi non designano nessuna identità con Dio, ma sono piuttosto termini "funzionali", nel senso che indicano una particolare funzione o missione salvifica ricevuta da Dio.
Non bisogna dimenticare che Gesù addita oltre se stesso, ad un mistero, carico di senso e di redenzione, che egli chiama Padre: " perché il Padre è più grande di me " in Gv. 14,28.
Giovanni ha una concezione
esclusivista della salvezza, come se solo attraverso Gesù si potesse conoscere e
percorrere la strada di Dio. Il suo linguaggio assertorio talvolta ci lascia un
po’ sgomenti: o bianco o nero, o la verità o l'errore, o i figli della luce o i
figli delle tenebre. Ma l'evangelista è un figlio del suo tempo, della sua
cultura!
Se si confrontano i racconti
delle tradizioni che riguardano la passione, sembra che il Cristo quasi cammini
tra la sofferenza in modo celestiale. Mentre Marco, Luca e Matteo segnalano il
suo vistoso patimento, la sua estrema difficoltà, per Giovanni il protagonista
della passione è molto meno sofferente,
in lui c’è già la gloria, c’è già la luce della resurrezione.
Il suo vocabolario è relativamente povero: 1011 parole, contro le 1961 di
Matteo, le 1145 di Marco e le 2055 di Luca. Ce ne sono che si ripetono spesso: i
verbi agapào 36 volte, conoscere 56 volte, invece sono quasi
assenti altri come: predicare, annunciare ed espressioni come
“regno di Dio”.
Una bellissima trovata dell’evangelista è che,
in genere, le persone che incontrano Gesù lo fraintendono. Nicodemo dice: ”ma
come posso io che sono vecchio nascere di nuovo?” e questo travisamento,
letterariamente costruito, dà il segno del fatto che incontrarlo è qualcosa che
impegna in un cammino: tu non lo incontri subito, non lo cogli subito, c’è
l’esigenza di ritornarci su, di capire; il fraintendimento è l’occasione per
l’approfondimento.
Oppure un’altra tecnica di Giovanni è “la scala a
chiocciola”: i discorsi di addio dal cap. 13 al 17 sono a ripetizione: “io vi
lascerò ma vi manderò lo spirito”.
Il suo è un procedimento letterario, qualche volta molto pesante, ribaditivo, ma
fatto probabilmente apposta con questa tecnica, perché le cose si capiscono
lentamente. Questa è una dinamica tipicamente ebraica. L’ebraismo ti dice 4 o 5
volte l’origine del mondo: nei cap. 1 e 2 di Genesi, nel Pentateuco, nel libro
delle Cronache; i Salmi la richiamano. La Bibbia riprende sempre i grandi temi:
la gioia, la benedizione, la gratitudine, la disperazione, il dubbio, la
depressione, la bestemmia, lo scandalo di questo mondo. In questo l’evangelista
è molto ebraico.
I primi manoscritti sono del III e IV secolo. La
prima citazione di questo vangelo si trova verso il 130 - 140 d.C.: il carbonio
14 ha rilevato che questo dovrebbe essere il tempo. Nel IV e V secolo ce l’hanno
tutti i grandi codici: maiuscoli e minuscoli; il papiro 52 vieni addirittura
datato del 130 - 135 d.C.: è segno che almeno in Egitto era conosciuto nella
seconda metà del II secolo.
Il nostro autore conosceva i sinottici? Studioso che
leggi, parere che incontri: può darsi, ma quello che possiamo sapere è che non
dipese letterariamente da loro. Che li conoscesse è probabile,
però letterariamente ha una struttura diversa, fino ad un certo punto, perché
poi tutti arrivano Gerusalemme con la passione, morte e resurrezione.
Come è nato questo testo? Il vangelo termina al
capitolo 20, versetto 30; il 21 è
chiaramente un capitolo molto tardivo, aggiunto. Come si è formato è oggetto di
varie ipotesi degli studiosi: ci sono tre grandi elementi di
ricerca.
Il
primo è il “modello dell’unità della composizione”: ci sarebbe un autore che ha
selezionato, raccolto, organizzato del materiale, sia pure in tempi successivi.
Avrebbe fatto un’opera di duplice organizzazione: ha scritto, ma ha anche
ricevuto; non si esclude che si sia servito di materiale preesistente, con
piccole modifiche, come il brano dell’adultera, che è nei manoscritti di Luca e
solo dal X secolo viene portato in Giovanni, ma tranne piccoli spostamenti
sarebbe un modello di unità di composizione.
Il secondo: il “modello del vangelo primitivo”, con
successiva elaborazione ed ampliamenti: ci sarebbe stato,
secondo studiosi come
Raymond E. Brown “Giovanni”
(Cittadella Editrice) ed altri, un
piccolo, breve scritto primitivo che, successivamente, ha ricevuto ampliamenti,
aggiunte, correzioni.
Il terzo è “il modello delle fonti“: ci sarebbero
stati una pluralità di autori, i quali
hanno scritto chi una fonte chi un’altra: uno avrebbe redatto la passione, un
altro avrebbe fatto delle aggiunte e poi un redattore finale. Secondo
Brown
sono individuabili 5 fasi. La cosa più probabile che possiamo dire è che e
questo scritto abbia avuto una crescita nel tempo.
Il grande problema che emerge
in questo vangelo è il rapporto con la sinagoga. (Klaus Wengst
“Il vangelo di Giovanni”, Queriniana).
Noi pensiamo sempre ai “cristiani” di Matteo, di Marco,
di Luca, ma non dobbiamo dimenticare che sono sempre ancora tutti quanti
dentro l’ebraismo, che frequentavano le sinagoghe. Quando
compare la parola giudei nel testo greco,
non vuole dire: i giudei in genere, ma le
autorità giudaiche. Qui non si
parla di cristianesimo, perché noi sappiamo
che questo testo non nasce prima del 120 – 130 d.C.
La tragedia del 70 per gli ebrei non fu solo il
massacro di un popolo, ma soprattutto con la distruzione del Tempio, una
tragedia religiosa e culturale difficilmente immaginabile per noi. La stessa
identità ebraica era stata messa radicalmente in crisi. Dopo questa tragedia
all’interno del giudaismo ci fu una radicale ristrutturazione: i vecchi gruppi
degli zeloti, esseni, sadducei e sacerdoti scomparvero, emerse il gruppo dei
farisei, che ricostruirono l’identità
ebraica attorno ai rabbini ed alle sinagoghe. I discepoli del Nazzareno, caduta
Gerusalemme e distrutto il Tempio, lasciarono la Palestina. Questi ebrei, che
facevano riferimento a Gesù, erano già malvisti, perché certamente Giacomo, suo
fratello, venne ucciso quasi subito e così anche Stefano. E’ probabile che Maria
di Magdala e le altre donne siano andate in Samaria. La comunità di Giovanni può
darsi che fosse proprio in Palestina, probabilmente a Gerusalemme, ma che, con
la distruzione del Tempio, sia fuggita in una zona più pacifica, per esempio ad
Antiocchia di Siria, dove c’era una grande comunità ebraica od in altre zone. La
sinagoga era il loro punto di riferimento naturale, ma non tutte le sinagoghe
erano uguali: alcune erano “aperte”, altre, diremmo oggi, fondamentaliste. La
partecipazione di questo gruppo ebraico, particolare, creava all’interno forti
tensioni, non solo perché per loro Gesù era il Messia d’Israele, mentre per la
maggioranza degli ebrei non lo era. C’era l’interpretazione diversa di molti
precetti, come la circoncisione, le carni, le norme di purità ecc., che portò
una parte a dire: “bisogna cacciarli questi
nazarei (così erano chiamati quelli che poi saranno i cristiani),
perché non rispettano la tradizione”. Nel Concilio di
Jamnia,
una località vicino all’odierna Gaza,
pare sia avvenuta una scomunica contro i nazarei,
coloro i quali facevano del Cristo uno che aveva aperto a tutti. Altri ebrei
invece dicevano: “si può stare benissimo insieme confessando che Gesù è il
Messia di Israele, professando tutta la tradizione ebraica ed osservando la sua
strada, il suo insegnamento”. Ci sono testimonianze che,
fino all’anno 300 e più, esistevano delle sinagoghe e dei luoghi d’incontro dove
chi era cristiano e chi era ebreo stavano insieme. Queste esperienze finiranno
con il Concilio di Nicea, che fu la sconfessione della possibilità di stare
insieme ebrei e cristiani.
La comunità giovannea aveva diverse “correnti”, molte volte in conflitto tra loro: c’era una parte che diceva: “Gesù è il Messia, ma di Israele”; altri dicevano: “no, Gesù è il Messia in cui c’è un’apertura universale. Noi siamo ebrei, siamo dentro l’ebraismo, ma chi viene dal cosiddetto paganesimo non deve ricevere delle imposizioni: si inserisce nel popolo di Dio, ma con libertà”. Dentro questa comunità oltre i giudei erano arrivati i cosiddetti pagani ed i samaritani, i nemici di un tempo. Aver incluso nel capitolo quarto il brano della samaritana significava dire ai primi della classe: “nessuno è escluso!”, e questo creava forti tensioni. Questo gruppo però ha un grande impulso, è la spinta paolina, che ha caratterizzato la redazione ultima di Matteo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
Due,
tra le molte questioni aperte, sono: la scuola giovannea e chi è il discepolo
prediletto. Che cos’è la scuola giovannea?
Noi abbiamo ricevuto il vangelo, le tre lettere, l’Apocalisse e dicevamo: “è
tutto di Giovanni”; avevamo questa nozione, ma è molto più probabile che
siano il prodotto di una scuola che si rifaceva all’evangelista.
Del discepolo prediletto alcuni dicono fosse
un personaggio storico della comunità, che mentre questa si stava
istituzionalizzando, deve aver dato una grande testimonianza. Come dice
Brown
in tempi come quelli, di grande difficoltà,
come Matteo aveva avuto come riferimento Pietro è chiaro che ci sia stata una
persona simile anche per la comunità giovannea. Le comunità in genere avevano
delle persone di riferimento, nel
senso non di gerarchia, ma di testimonianza, come le comunità paoline. Questo
autorevole personaggio ci ricorda che,
se le cose non sono dettate dall’amore, dalla dedizione e dalla disponibilità
nulla vale. La comunità è nata sulla testimonianza di qualcuno di grande
profondità e che è stato probabilmente all’origine di una scuola che ha
tramandato la memoria.
Altri tra cui John S. Spong “Il quarto Vangelo. Racconti di un mistico ebraico”,(Massari editore) dicono invece che il discepolo prediletto, di cui si parla solo nella cena e nel capitolo ultimo, il 21, sarebbe un personaggio immaginario, un simbolo che la comunità ha elaborato, a cui riferirsi. Bisogna essere animati dall’amore. Vedete che le due correnti però alla fine convergono: che ci sia stata una persona, che ha esemplificato e testimoniato con la sua vita: “il discepolo prediletto”, oppure che sia invece una costruzione simbolica, entrambe vogliono dire che la comunità deve guardare alle testimonianze dove vive l’amore, la fedeltà, la perseveranza.