Chiamati alla responsabilità

 

La modernità del vangelo di Matteo

 

don Franco Barbero

 

Sbobinatura non rivista dall’autore, della serata di presentazione del vangelo di Matteo, il nuovo libro sui cui la cdb di Chieri rifletterà e si confronterà a partire da settembre, fatta l’1/6  da Franco Barbero

 

In “cdb informa” n° 50 giugno 2011

 

Io vorrei dire alcune cose come premessa al testo, prima di considerare più da vicino il vangelo di Matteo. C’è stato un lungo periodo in cui si leggevano i vangeli con grande fede, sentimento e partecipazione comunitaria, ma senza domandarsi qual è stato il primo, quali sono state le fonti. Era invalsa l’opinione di Agostino d’Ippona che Matteo fosse assolutamente il primo vangelo, il più antico e gli altri o l’avessero sunteggiato o dipendessero in qualche modo da lui. Ben presto si notò che c’erano tre vangeli che viaggiavano nella stessa direzione e furono chiamati, appunto, “sinottici”. Il quarto, molto vario, molto diverso nell’impostazione dei capitoli, nel genere letterario, era quello di Giovanni. Nel 1776 Johann Jakob Griesbach, grande studioso, pose il problema che verrà poi chiamato “la questione sinottica”. Partendo da questo importante quesito, si avviò, con grande precisione, un lavoro molto materiale. Si cominciarono a contare i versetti, a vedere se quelli che erano in Marco si trovavano anche in Luca, se c’erano in Matteo. Tale lavoro, attraverso decenni di confronto sui diversi codici, produsse questo esito: Marco è costituito da 661 versetti dei quali: 330 sono comuni sia a Matteo che a Luca, 325 invece sono presenti o solo in Marco e Matteo o solo in Marco e Luca; soltanto 26 sono esclusivi di Marco. Si fece lo stesso lavoro con il vangelo di Matteo, dove risultarono esserci 1068 versetti: 523 presenti anche in Marco e Luca, 235 solo in Matteo e Luca, 310 soltanto in Matteo. La stessa operazione si fece in Luca: 1149 versetti, dei quali 364 comuni anche a Marco e Matteo, 235 - il numero ritorna - presenti solo in Luca e Matteo, 550 fonte propria. Mettendo i testi in sinossi si elaborarono varie ipotesi. La prima era quella di un vangelo primitivo poi perduto, che però non veniva suffragata da nessun dato, perché nelle varie fonti c’erano delle varianti, anche negli stessi passi, che non autorizzavano a pensare ad una fonte comune, primitiva. Un’altra era l’ipotesi dei frammenti: sarebbero circolati tanti frammenti e ciascun evangelista ne avrebbe attinto secondo il progetto teologico della propria comunità. Altri sostenevano l’ipotesi della tradizione orale: non ci sarebbe stata nessuna fonte scritta. Ma siccome i 235 versetti che compaiono solo in Matteo e Luca sono proprio identici, è difficile  immaginare che da distanze tali da non permettere una facile comunicazione, fosse così semplice la memorizzazione. Queste ipotesi furono riprese per molto tempo finché comparve, oltre a quella agostiniana della dipendenza da un modello unico, quello di Matteo, l’ipotesi delle due fonti. Prudentemente dobbiamo sempre parlare di “ipotesi”, perché non tutti gli aspetti sono chiariti; ciò non toglie nulla ai nostri vangeli, ma non abbiamo raggiunto la certezza che l’itinerario sia sempre stato questo. L’ipotesi delle due fonti è oggi quella comunemente più accolta; gli studiosi dicono che ci sono due fonti per i tre vangeli: una è Marco, l’altra è la fonte dei loghia: cioè dei detti di Gesù, che sarebbe la fonte comune a Luca e Matteo. Oltre a queste due fonti, ogni vangelo avrebbe una parte “propria”: la parte tipicamente lucana, quella marciana, quella matteana. Questa è attualmente l’ipotesi più accreditata, secondo molti autori è quasi una certezza. Oggi i risultati della ricerca ci hanno aiutati a collocare nella stessa ottica i tre vangeli sinottici. Questo costituisce un arricchimento ma anche una tentazione, perché poi bisogna saper leggere ogni vangelo nella sua originalità e non essere assorbiti da una “ideologia sinottica”, le ipotesi non devono diventare delle ideologie. Bisogna che ogni vangelo, per quanto sia possibile, sia collocato nel proprio contesto e letto dentro tale orizzonte. Fatta questa premessa, noi vediamo che intorno al vangelo di Matteo, come attorno ad ogni vangelo ci sono grandi discussioni. Su alcune cose c’è un comune accordo: si è convenuto sul testo greco - assolutamente ricostruito bene - come ci dicono i lavori  degli studiosi della cultura greca (Barbaglio e altri). Oggi, a differenza degli Atti degli Apostoli dove possediamo la versione più lunga e la versione più breve, per i vangeli sinottici abbiamo la ricostruzione testuale secondo i codici più antichi, grandemente condivisa da tutti gli studiosi.

Il vangelo di Matteo occupa un posto privilegiato nella letteratura cristiana del II, III, IV, V secolo. E’ il più citato, non solo tra i vangeli, ma fra tutti gli scritti del Nuovo Testamento. Nella Patristica trovate grandi citazioni di Matteo, pochissime di Marco; ciò vi stupirà. Matteo ha preso il sopravvento, è sempre al primo posto negli elenchi, tant’è che nella codificazione è rimasto poi il primo, fu visto come il più importante e fu messo al primo posto. E’ stato considerato, fino a qualche secolo fa, il più antico. Questa era un’opinione che proveniva da Agostino d’Ippona, il quale sosteneva che quello di Matteo era un vangelo didattico, quello che serviva di più alla catechesi, cioè a coloro che si accostavano alla fede cristiana. I lunghi discorsi lo rendevano adatto a ciò, tant’è  che  qualcuno disse che il vangelo di Matteo è una lunga predicazione.

La struttura di questo vangelo è fatta di cinque grandi sezioni che vengono chiamate “discorsi”: dal cap.5 al 7,28, dal cap. 10,1 al cap. 11, dal cap. 13,18 fino al cap. 19 e poi dal cap. 26 fino alla fine; in realtà sono dei grandi racconti. Ma qual è  il messaggio di Matteo, perché è così strutturato? E’ probabile che questo vangelo, secondo le ipotesi oggi più largamente condivise, sia nato ad Antiochia di Pisidia, dove era arrivato Pietro, dopo esser stato un po’ messo ai margini nella comunità di Gerusalemme. Pietro, scoppiata la persecuzione, aveva lasciato il posto all’altro figlio di Maria e Giuseppe, Giacomo, che viene chiamato, fratello del Signore (Galati 1,19).

Ad Antiochia c’era un grande gruppo di giudei, che quando era iniziata la persecuzione a Gerusalemme vi si erano trasferiti, perché là era già presente una colonia ebraica. Pietro venne in questa comunità e lì trascorse il resto della sua vita, dopo i pochi anni vissuti a Gerusalemme. Nella comunità di Antiochia c’erano i reduci da Gerusalemme che sono quelli che tenevano fermo il principio della fedeltà alla Thorà e quindi ai precetti, alla Legge, ma c’era anche una grande presenza di pagani. Una comunità così composta fece un’esperienza di difficile convivenza. Non erano ancora dei cristiani, non possiamo ancora parlare di cristianesimo. I componenti giudaici della comunità erano divisi in due correnti di pensiero diverse: c’erano gli ebrei fedeli al rabbinismo e quelli messianici. Chi erano gli ebrei rabbinici? Erano quelli che consideravano tutto ciò che avveniva come una prosecuzione normale dell’ebraismo, erano dei convinti osservanti dei precetti della Thorà, loro sono diventati discepoli del nazareno ma tutto questo non li allontanava un minimo dalla Thorà. Gli altri, gli ebrei messianici, erano quelli che hanno riconosciuto in Gesù il Messia. Non un Messia cristiano come possiamo pensare noi, ma il Messia d’Israele. Si consideravano degli ebrei che finalmente avevano il Messia. E dicevano agli altri: “perchè voi non lo accettate come Messia?”. Nulla di nuovo che ogni tanto fra di loro, messianici e antimessianici, ci fossero delle baruffe. Tra gli ebrei era consueta la discussione, tant’è che c’è un detto che sostiene che se tu vai in un isola e sei da solo, di sinagoghe ne devi costruire due, perché quello che arriverà dopo di te, la penserà diversamente da te.

Chi è stato il punto di riferimento che ha tenuto insieme queste due grandi correnti di ebrei? Pietro. Egli ha avuto da Dio il dono di aiutare queste due grandi correnti, rigorosamente vitali a stare insieme, a non separarsi. Ovviamente Pietro era un ebreo, la lettera ai Galati ci dice che lui era un po’ “spostato” verso i rabbinici, però prenderà anche la posizione dei messianici. Pietro, di cui nel vangelo si dice che: “su questa pietra…” la comunità regge. Pensate alla storia successiva, a come questi versetti sono stati manipolati per dare legittimità al papato. Pietro è stato il garante del confronto, la possibilità data a questi due gruppi di non separarsi, di rimanere insieme in una prospettiva che li accumunava per tante cose ma che li separava per la visione di Gesù come Messia. Solo Matteo ha questi passi riguardo a Pietro: “tu sei Pietro…” perché la comunità dopo la morte di Pietro, quando negli anni 90 il vangelo viene redatto, riporta con riconoscenza il carisma di Pietro che è stato quello di continuare a tenerla insieme.

Il vangelo di Matteo  è attraversato da questa tensione: “non uno solo iota sarà dimenticato …”, la Legge deve compiersi totalmente. Guai a perdere uno iota, un punto della Legge, tutta la Legge deve essere compiuta. Ma dall’altra parte c’è anche “andate in tutto il mondo, predicate il vangelo…”: avete presente come finisce il vangelo di Matteo! Il redattore ultimo di questo vangelo ha certamente reso molto bene sul piano letterario la tensione interna.

 “Ogni discepolo è come uno scriba che tira fuori dal suo zaino cose vecchie e cose nuove”cap. 13,52 questo è il ritratto di Matteo. L’evangelista descrive e compone le tensioni. Non si tratta di abbandonare la Torah, ma di compierla; si tratta in realtà di prendere quello che Dio ha dato ad Israele: gli ha donato la Torah, ma anche il Messia. Le due correnti devono poter stare insieme. A me personalmente rincresce che poi ci siamo staccati da Israele, perché le cose potevano andare diversamente dice Redtorff, questo grande studioso, potevamo rimanere un “quartiere” dell’ebraismo, senza separarci. Le tensioni tra queste due correnti si ripresentano anche al cap. 5,17-20: “17 Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. 18 In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. 19 Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. 20 Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. C’è evidentemente una polemica interna, ma la polemica non è antigiudaica è anti legalista. Noi avremmo poi letto tutto il vangelo in chiave antigiudaica, ma tra di loro, se voi leggete Isaia, Geremia, Ezechiele, Amos si scannavano molto crudamente, ma non vi era certo un antigiudaismo, era la restituzione della fede alla sua genuinità. Alberto Mello, monaco di Bose nel suo “Vangelo secondo Matteo” dice: “Matteo, nei decenni successivi alla morte di Gesù su questo terreno occupa una posizione vicina a Giacomo e opposta a Paolo” e citando  D. Marguerat:  "La problematizzazione della legge mosaica ha condotto Paolo a questa operazione inconcepibile per il pensiero giudaico: dissociare la legge dalla grazia; solo la grazia dono salvifico salva, non il comandamento. Questa disgiunzione ha avuto delle ripercussioni incalcolabili. Essa ha falsato la lettura cristiana dei testi giudaici, intesi il più delle volte come depositari di una religione strettamente legalista, sprovvista di ogni percezione della grazia. Al contrario, l'ambivalenza della legge, simultaneamente grazia ed esigenza, precetto e dono salvifico, è un dato costitutivo della tradizione veterotestamentaria e giudaica. Matteo non se n'è scostato". Matteo non ha dimenticato la Thora. Dunque cosa è successo? Paolo nella sua foga per annunciare il Messia parla della legge più in termini legalistici che non propositivi. Storicamente Paolo ha preso un grandissimo abbaglio, poi nella lettera ai Galati e ai Romani si salva in corner, diremmo noi, dice no, la Legge non è negativa. La verità storica è che la Legge per Israele non era legalismo, era obbedienza alla volontà di Dio. Siamo noi che nella nostra visione abbiamo distorto la realtà. I farisei di cui Matteo ed altri danno polemicamente una visione molto distorta, erano un movimento complesso e attraversato da più anime, perché mentre c’era un fariseismo legalista, c’era un fariseismo del cuore, un fariseismo della verità. Molto interessanti a questo proposito le osservazioni che fa Alberto Mello  nel suo “Vangelo secondo Matteo”.

Noi siamo in una fase dove evidentemente dobbiamo ripensare i nostri giudizi quando leggiamo la Torah, la Legge, non cadere subito nella trappola della interpretazione denigratoria, tipicamente cristiana, che ha attraversato i secoli.

Matteo dice che l’ebraismo può aprirsi se accetta il Messia, il Messia apre le porte ai popoli. Ed ecco le pagine in cui c’è la donna cananea, c’è il mandato aperto a tutto il mondo, ci sono i Magi che vengono da lontano. Matteo non pensa a fondare una nuova religione, evidentemente non pensa in termini cristiani. Pochi anni dopo verso gli anni 110 - 130 comincerà davvero la separazione, nascerà il cristianesimo come religione separata dall’ebraismo. Matteo è l’estremo tentativo di tenere insieme particolarismo e universalismo, per usare le nostre consuete categorie. E’ importante tener conto di questo contesto perché è veramente arricchente ed è un contesto oggi universalmente riconosciuto. Nella ecclesiologia di Matteo i cristiani sono i piccoli; 73 volte viene detta la parola i “discepoli”, quelli che imparano; in nessuno scritto compare tante volte come in questo vangelo. Per “discepolo” Matteo intende “non chi dice Signore, Signore…” ma chi fa la volontà di Dio. Il vero problema dei discepoli, cioè dei piccoli, è di avere la “fede piccola”, una fede che non si affida. La figura petrina è il punto saldo di riferimento ed è il portavoce dei dodici. Ai cap. 14 e 16 Pietro ha un ruolo veramente di coordinamento, ma anche di autorevolezza morale. Nella comunità, sempre sul terreno della ecclesiologia, non c’è da aspettarsi l’Eden: nel cap. 18 si prevede addirittura l’esclusione dalla comunità, ma una esclusione, dicono i commentatori, che non è punitiva, ma affinché il fratello e la sorella possano ravvedersi.

Un’altra cosa vorrei aggiungere: l’uso delle scritture ebraiche. Voi noterete 40 citazioni dirette del Primo Testamento, di cui 30 sono indirette e oltre 10 hanno questa introduzione: “così si è compiuta la scrittura”. Non c‘è il senso della rottura, ma del compimento, senso che noi avremo, nella nostra storia, ereditato come tradizione. Tradizione che è l’opposto di tradizionalismo. Il tradizionalismo è rendere “ingessata” una verità, una liturgia, un’opinione. Tradizione, da “transducere”, è “portare oltre”. Pensate in nome della tradizione quanto tradizionalismo si compie. L’amore verso la tradizione è continuare il transducere, il portare oltre, il portare avanti. E’ nel rinnovamento che c’è il senso più profondo della tradizione. Nel’ebraismo questo concetto si trasmette davvero in tutti i testi, voi lo vedete: un testo ripete l’altro, lo riprende, lo rievoca, ha il senso della memoria, di Dio che ci conduce avanti. La tradizione come fiume vivo che è affidato anche alla nostra responsabilità, perché la fede rimanga legata alla vita. L’ebraismo conserverà questa concezione nelle sue parti più vitali. Dentro ogni percorso religioso è però facile che la tradizione venga mummificata e si trasformi in un tradizionalismo, nessuno di noi è esente da questo.

Durante la lettura incontrerete i racconti sulla nascita di Gesu’, presenti solo in Matteo e Luca. La nascita di Gesù si colloca all’interno dei racconti di nascite straordinarie presenti anche nella Bibbia (ad es. in Genesi}. Questi miti erano diffusi in tutte le religioni; le aggiunte di Luca e Matteo sono l‘intreccio tra le più conosciute tradizioni ebraiche e le tradizioni del mondo pagano. Il fatto di narrare la storia del Messia, perché Matteo  pensava effettivamente che Gesù fosse il Messia d’Israele, rendendola parallela alle storie dei grandi uomini divini era la tipica usanza di utilizzare i grandi miti per valorizzare la persona di Gesù, un modo di proiettare alle origini il riconoscimento della funzione di Gesù. Queste retroproiezioni sono una felice, indovinata combinazione dei miti antichi che appartengono ad Israele ed alla società di allora. Non si poteva presentare al mondo greco uno che nasce come noi, bisognava, per sottolinearne l’importanza, descriverne la nascita in quel modo. Il vero problema è come leggere queste pagine oggi.

Noterete le versioni matteane del Padre Nostro e delle beatitudini, vi accorgerete di quali sono le sue parabole tipiche. Matteo è molto incline alla responsabilità: vedrete le parabole dell’amministratore disonesto, le parabole del giudizio, perché per Matteo bisogna assumere il peso delle scelte. All’azione gratuita, avvolgente, accompagnante di Dio, si affianca il nostro impegno, la nostra azione. Le parole che sollecitano la nostra responsabilità sono ricorrenti, non a caso in Matteo cap. 25 c’è il giudizio. Il vero problema è che il rapporto con Dio è un rapporto impegnativo, bisogna che noi viviamo la fede come una cosa seria, Matteo ha molto questo elemento. Anche perché in una interpretazione perversa di Paolo c’è l’anomia: in fondo se tu ti privi della Legge poi sei libero dalle regole. Paolo già nella seconda parte della lettera ai Galati si accorge che qualcuno ha interpretato la libertà dalla Legge come libertinismo, come egoismo. Matteo è molto sensibile a questo dato della responsabilità, sente che l’impegno della sequela è un impegno difficile e quindi lo sottolinea costantemente nelle sue parabole.

Finisco dicendo che troverete un sacco di cose interessanti: è solo sua la parabola del lievito che, con un poco di farina può produrre una mensa straordinaria. Matteo è un grande pittore che  è come dice Margueratt un genio bilingue: scrive in greco ma pensa in ebraico.

Bisogna che noi ci sforziamo, quando lo leggiamo, di non pensare a noi stessi, subito, come cristiani, noi non possiamo prescindere da questo dato di discepoli di Gesù, però dobbiamo sapere che lui pensa sempre con le categorie della sua fede ebraica. Ha congiunto la sequela di Gesù con la profonda consapevolezza che bisogna che noi ci regoliamo nella vita, ci responsabilizziamo. E’ un vangelo per altri versi duro, un vangelo che non sembra fare sconti.