“Il vangelo ebraico”
di Franco Barbero
In “cdb informa” n° 57 dicembre 2013
Relazione di Franco Barbero alla giornata conclusiva del Gruppo biblico di Torino — sbobinatura e adattamento non rivista dall’autore
Io credo
che noi oggi dovremmo parlare almeno della seconda parte del libro
“Il vangelo ebraico” di Daniel
Boyarin, uno dei maggiori studiosi di ebraismo; un testo che va letto con
capacità critica costruttiva, ma che soprattutto, a me sembra, esiga una
contestualizzazione. Mi spiego meglio: credo che esista un dato di fatto di
partenza che questo libro ha messo saggiamente in discussione: noi abbiamo alle
nostre spalle la lucida, ribadita, precisa consapevolezza che ebraismo e
cristianesimo sono due “territori” distinti. La nostra eredità catechistica, ma
soprattutto teologica, ha diviso nettamente le strade, indicandoci i tempi in
cui la separazione ha dato origine a due percorsi diversi. Con la nascita e la
predicazione di Gesù, secondo il catechismo attuale della Chiesa, avviene una
separazione che, per questa tradizione catechistica diventata dogmatica: con
l’avvento di Gesù ha inizio un tempo nuovo, ma nel senso di “diverso, superiore”
e, vedremo presto, “opposto” all’ebraismo .
Noi siamo cresciuti con l’idea di due religioni diverse. Tutto questo non è mai
stato messo in discussione fino a quando, dopo la Shoah, è venuto il tempo del
dialogo ed allora abbiamo avuto la possibilità di reinterrogarci. E’ avvenuto
che dentro questi due “territori”, così pacificamente divisi, l’indagine storica
ha aperto dei cunei, ha sommessamente citato dei dubbi, ha evidenziato che
questa nostra idea della diversità in realtà è una menzogna. Il nostro autore
cita la ricerca storica sulla patristica che documenta come nei secoli III e IV
un grandissimo numero di persone, fino al Concilio di Nicea, ha pensato: “siamo
ebrei e discepoli, discepole del Nazzareno”.
Una
seconda convinzione che è venuta a formarsi è che tutto ciò che noi abbiamo
elaborato nella cristologia in qualche modo fosse già documentato nell’ebraismo.
Sono venuti a galla, nei ritrovamenti di Nag Hammadi, nell’alto Egitto, dei
testi ebraici importantissimi. Voglio solo citarne qualcuno, li possediamo
integralmente: il IV libro di Esdra, le Odi di Salomone, ma
soprattutto Enoch e la grande letteratura enochica, con le figure del
Figlio dell’uomo, del Figlio di Dio, del Redentore e la
caduta degli angeli. Dalla Bibbia abbiamo il libro di Daniele, 174
a.C., con l’immagine del Figlio dell’uomo che sembra sia stata ripresa
anche da Gesù. E’ una letteratura immensa che parla di una figura che siede
vicino al Divino, su un trono minore; un giovane, vicino al trono del santo
anziano, che sarebbe Dio, viene chiamato Messia, l’Unto. Quindi
dal 160 a.C. fino all’80/90 d.C. noi abbiamo centinaia di citazioni con le quali
gli appellativi: figlio di Dio, Salvatore, Redentore, Unto,
Messia, vengono costantemente tirati in ballo.
Su questi temi, per approfondire, vi raccomanderei di leggere: “Il vangelo
perduto e ritrovato” di Luigi Schiavo (studioso della fonte Q e prete
cattolico), un libro di cui non bisogna perdere una riga e, sempre dello stesso
autore: “Gesù: dalla storia alla fede”. Fondamentali anche gli studi di
Paolo Sacchi sul “furor messianico”, editi in Italia. Ma qual è
l’elemento che ci permette di valorizzare il contributo di Boyarin? E’la
considerazione che, nel periodo dal 174 a.C. alla distruzione del tempio di
Gerusalemme e fino al Concilio ebraico di Jamnia (90 d.C.), il popolo pensava
assolutamente ad un Messia che stava per venire. L’oppressione era tale che la
profezia avrebbe generato l’apocalittica e il messianismo.
Dopo il tempo del profeta Aggeo la sapienza e la profezia
diverranno le due madri dell’apocalittica e dell’escatologia, la
scienza biblica che guarda alle cose ultime, ma quando diventa un’ escatologia
apocalittica, questa influenzerà la società del tempo a pensare che sia
imminente il giudizio: “perché Dio non tollera questo livello di
ingiustizia e di oppressione”.
E’ in tale contesto che nascono i movimenti dei farisei, quelli degli esseni dei
villaggi, quelli Qumramiti. Tutti pensano ad un Messia che arriva: per alcuni
sarà sacerdote, per altri guerriero, per altri ancora sarà umile, come dice
Zaccaria, ed arriverà cavalcando l’asinello, oppure sarà un Messia angelo che
Dio incarica di “prendere carne”, di redimere questa umanità e poi ritornare in
cielo. La corrente che ha dato vita alla letteratura enochica pensava che Enoch,
il settimo patriarca, non poteva essere stato abbandonato da Dio; Egli l’aveva
preso con Sé, l’aveva tenuto presso di Sé e al momento buono l’avrebbe inviato
come Messia. Enoch sarebbe venuto come il Redentore di Israele e dell’umanità.
Compiuta la sua missione sarebbe tornato presso Dio. Dunque si è andata
costituendo un’infinità di percorsi: uomini presi e sollevati a posizione
angelica, fatti di nuovo incarnare, diventati redentori, risaliti a Dio a
missione compiuta.
A Qumram si pensava che sarebbe venuto un Messia sacerdote, ma non come quelli
corrotti di Gerusalemme; altri, sempre a Qumram, credevano che ci sarebbe stato
un Messia guerriero, che avrebbe sterminato tutti gli oppressori.
A Gerusalemme, per la corrente sacerdotale che deteneva la dottrina ufficiale,
il Messia era tutto sommato funzionale a conservare il potere sacrale.
A partire da Isaia con il servo di Javeh, nei villaggi era predominante
una visione diversa, di un Messia dei poveri, che avrebbe sofferto, che avrebbe
instaurato però la giustizia. Il suo arrivo sarebbe stato imminente (Is. 15,05)
ed avrebbe ridato le forze della vita a chi non le aveva più.
Quindi un pullulare incredibile di ipotesi e concezioni. Si discuteva se la
venuta del Messia, e non ho certo la pretesa di risolvere il problema, ponesse
fine alla storia d’Israele, o alla storia del mondo. Tutte e due le ipotesi sono
presenti: in alcuni detti messianici sembra che Dio inizierà una creazione
nuova, in altri che creerà un popolo nuovo.
Quando Gesù nasce, ecco quello che mi premeva soprattutto sottolineare, viene a
trovarsi totalmente all’interno di questo contesto: pensa ad un giudizio
imminente di Dio, ritiene che Egli farà giustizia. In ciò, come si vede, è
totalmente allievo del Battista: crede di doversi convertire e che gli ultimi
tempi siano arrivati. Ma ben presto si differenzia dal maestro e dalla
corrente della imminenza del solo giudizio. Gesù porta una sua originalità: il
giudizio di Dio è imminente, Egli farà giustizia, ma c’è un tempo tra
l’imminenza e la fine che è il tempo dei fiori e dei frutti del regno di Dio, è
il tempo in cui dobbiamo fare sì che il cieco veda, che lo zoppo cammini, che la
donna emarginata giunga in città, che il lebbroso venga riconciliato.
Gesù, che come il Battista predica un messaggio di conversione, ha questa
sottolineatura tipica; mentre da Gerusalemme il messaggio era: - aspettate ed
adempite la Legge in tutte le sue minuscole prescrizioni - , il Nazareno
dice: “adempiere tutta la legge, ma che non sia logos, non sia
legalismo, ma sia la buona compagnia. Quando voi fate della Torah una legge, già
mettete nella parola un germe di perversione: la Torah è il buon insegnamento;
una legge che prevalentemente schiaccia, opprime è iniqua, non è la Torah; se
diventa tale è perché voi l’avete piegata alle vostre volontà oppressive”. Ecco
il grande messaggio di Gesù. Egli dice: “Nell’attesa del regno c’è
l’azione, Il regno di Dio verrà, è già qui, è in mezzo a voi, è tra voi,
è dentro di voi”. Questa è la sua grande originalità: l’imminenza anziché
produrre paralisi, produce decisioni radicali: “Vi ho detto che arriva il regno
di Dio, il Suo giudizio, ma voi usate questo tempo per scelte di vita
impegnative: sobrietà, condivisione, uguaglianza!”.
Questo ci fa capire meglio i racconti di miracolo. Nel brano di Luca 7,1-17,
sulla vedova di Nain, sappiamo bene che l’episodio è copiato sui modelli di Elia
e di Eliseo che risuscitavano i morti. Gesù ricordava il salmo 68: “Dio è
protettore delle vedove e dello straniero, quindi nemmeno di fronte alla morte
bisogna fermarsi, non c’è nulla di impossibile per Lui; non fate dell’attesa
imminente una paralisi devastante, fatene una chiamata alla decisione, un
appello ad agire”.
Gesù e la Torah
Boyarin,
su questo tema, scrive le pagine più interessanti e convincenti del libro, la
parte che riguarda il capitolo 7 di Marco: gli alimenti che contaminano, la
diatriba con i farisei. Gesù è un grande amante della Torah ed osserva la legge
levitica dei cibi puri ed impuri, mangia Kosher, ma ricorda ai farisei che la
Legge non prescrive degli elenchi, dei rigori, delle regole fisse come loro
vogliono imporre. I profeti Geremia ed Isaia, che avevano dato voce alla fede
dei villaggi, avevano sempre detto che Dio guarda il cuore, non le apparenze,
“non ciò che entra nel corpo …”. Questo era l’insegnamento della Torah che,
nella sua essenza, aveva prescritto un uso equilibrato del cibo per la salute,
l’equilibrio, la sobrietà, la condivisione. Analogamente le leggi del cibo
Kosher indicavano che ce ne fosse per tutti, che rispettasse la tradizione, che
non contenesse il sangue, perché il esso ricordava le vittime dei sacrifici
pagani. Gesù non ritratta mai queste cose. Nel medesimo capitolo dice ai
farisei: “Voi, in nome delle vostre tradizioni, avete cancellato la Torah”;
Egli invece conferma le prescrizioni della Legge.
“I farisei cercavano di convincere gli altri ebrei ad aderire ai nuovi
standard di severità legalistica”, confondendo la Torah con i loro codici di
oppressione popolare. Gesù entra nel dibattito per dire: “Io difendo la Legge,
ma non quello che voi vendete come Torah, perché voi imponete al popolo le
vostre tradizioni, che sono tradizioni di dominio”. Sono stati i rabbini a
introdurre l’innovazione del lavaggio delle mani prima dei pasti, il che implica
che l’ingestione di cibi contaminati ci rende impuri. Gesù riconduce tutto alla
legge originaria, delegittimando le prescrizioni farisaiche e rabbiniche imposte
da Gerusalemme, con le quali i farisei volevano controllare la vita di ciascuno,
quotidianamente. Boyarin dedica molte belle pagine a questo tema dicendo che: “
Dal punto di vista di Gesù, le tradizioni degli antichi, successivamente
chiamate Torah orale, altro non sono che umani precetti, impartiti come dottrine
…. in questo caso inoltre ci troviamo di fronte ad
un’innovazione indubbiamente farisaica contestata addirittura da altri farisei.
Non c’è quindi da stupirsi se Gesù si mette di traverso per protestare…. Ciò non
ha assolutamente nulla da spartire con un’abrogazione della Legge, è solo un
modo di ribadirla…... Non c’è nulla nella versione di Marco di questo brano,
tanto meno in quella di Matteo, che faccia pensare ad un Gesù deciso ad
abbandonare la Torah. I galilei vedevano con antipatia le innovazioni farisaiche
provenienti dalla Giudea e da Gerusalemme. Una volta collocato nel proprio
contesto storico il capitolo (7) acquista una chiarezza cristallina .. Il
vangelo di Marco va interpretato come un testo ebraico anche nei suoi momenti
cristologici più radicali…”. Questa lettura ebraica del primo vangelo ci
aiuta maggiormente a capire Gesù. Di tale libro si dicevano due cose: è quello
che conserva più aramaismi, segno della sua ebraicità ed è stato redatto
probabilmente a Roma o in Siria. Temporalmente è il più vicino a Gesù: è stato
scritto dopo il 70. La semantica ebraica è rimasta dentro il vangelo di Marco,
sia pure con molte affermazioni e linguaggi ellenistici. Le categorie di
Figlio di Dio e di Figlio dell’uomo, come illustra bene Boyarin,
sono ebraiche. E’ chiaro che le comunità che hanno dato origine ai vangeli
vivevano in contesti misti.
Detto questo, la lettura de “Il vangelo ebraico” ci fa vedere come nella nostra
tradizione cristiana c’è stata una confusione, già a livello terminologico, tra
la legge e il legalismo.
Quale uso noi abbiamo fatto della scrittura? Nei secoli anziché narrare
l’evento Gesù abbiamo dogmatizzato una dottrina e pensate in che modo distorto
abbiamo descritto le normative ebraiche del tempo! Vi faccio degli esempi:
quando si legge la Bibbia non come un racconto da proseguire, da migliorare, da
aggiornare, perché Dio è vivo e ci interpella strada facendo, ma come un codice
legalistico da applicare, si finisce per fare una lettura maschilista e
patriarcale contro le donne, darne un’interpretazione contro gli omosessuali,
creare il caso Galileo. Una cosa è il racconto, altro è la dogmatica.
Anche i titoli di Figlio di Dio, Figlio dell’uomo …, fanno parte
del linguaggio messianico del tempo di Gesù. Gli ebrei che hanno visto in Lui la
predilezione per i poveri, la fiducia radicale in Dio, che hanno sentito in Gesù
la vicinanza del Regno, hanno detto “Questo è il Messia”, ed è probabile che lo
abbiano riconosciuto come tale. Gesù pensava di essere il Messia? Sono andato a
vedere cosa ne dicono Barbaglio, Theissen ed altri. Il primo afferma che è un
po’ difficile sostenere che Egli avesse questa consapevolezza. Che possedesse la
coscienza del profeta escatologico, a cui Dio aveva affidato una missione
particolare è invece probabile, perché per sfondare su tanti fronti, per essere
fedele alla Legge, soprattutto quando essa è libertà, liberazione, la mano di
Dio doveva essere nel suo cuore. Parte dei suoi contemporanei ha visto in Gesù
il servo sofferente di Isaia, il figlio dell’uomo, il profeta
assassinato, il figlio di Davide, il figlio di Dio, secondo la
tradizione ed il significato di allora, ma senza farne un Dio. Hanno attribuito
a Gesù, dalla cui testimonianza sono stati accesi i loro cuori, i più bei nomi
che la tradizione ebraica applicava al Messia, ma non l’immagine del “Messia
guerriero”.
Alcuni discepoli del Nazzareno lo seguirono come “Unto del Signore”, altri come
profeta escatologico, ma tutto questo era completamente interno all’ebraismo e
per molti tale collocazione continuò fino al III – IV secolo. Per i
giudeo-cristiani ciò comportò anche la persecuzione e la cancellazione dei
propri scritti; infatti vennero distrutti: il vangelo degli ebrei, il
vangelo degli ebioniti ecc. Chissà se li ritroveremo come è avvenuto per il
vangelo di Tommaso.
Per me Gesù è un evento messianico, ma non voglio dire che tutto il
messianismo, tutta la messianicità sia in Gesù. Noi oggi abbiamo consapevolezza
che il Messia ci deve accompagnare per lungo tempo. La nostra è l’attesa
costante dei luoghi dove Dio si rivela, dove si manifesta il messianismo. Se
guardiamo la storia ce ne sono di luoghi messianici!
L’apocalittica aveva abbreviato i tempi e forse anche Gesù era convinto di
questo. Noi sappiamo che il Regno di Dio verrà, ma probabilmente dobbiamo
ancora mettere un po’ di “benzina”. Sono molti a dire che dovremmo pensare se
abbiamo fatto bene a fondare due “società” (ebraismo e cristianesimo), anziché
restare una “cooperativa”. Sarebbe così bello dire che Islam, cristianesimo ed
ebraismo sono tre quartieri della stessa città! E’ un vero peccato che ci siamo
prima separati, poi fatti la guerra. Quante vittime abbiamo prodotto per dire
che abbiamo un Dio solo! Ma ognuno lo vuole affermare a modo suo e questo è
fonte di una grande sofferenza per l’umanità, collabora a rendere la fede
insignificante, dannosa. Ci perdiamo dietro le dottrine e dimentichiamo il
messaggio amoroso, coinvolgente ed accogliente di Gesù.