Dio nella Bibbia ci parla attraverso il filtro imperfetto della nostra umanità.
di Silvano Leso
In “cdb informa” n° 28 dicembre 2003
Il
presente scritto è il frutto della presentazione in comunità del libro "Bibbia
tradotta bibbia tradita"(edizioni EDB) del teologo ebreo Pinchas
Lapide. Morto nel 1997, l'autore ha scritto numerosi libri su Gesù
oltre al celebre "Leggere la Bibbia con un ebreo". Egli fa parte di
quella corrente di teologi e biblisti ebrei che,
negli ultimi 200 anni, a partire da Moses Mendelsshon, M. Buber e, negli
ultimi decenni, Geza Vermes, David Flusser, Ellis Rivkin ed altri, hanno
capovolto la caricatura ebraica medioevale di Gesù e scoperto la sua ebraicità,
ricollocandolo all'interno della travagliata storia del popolo d'Israele. C'è
un vero e proprio boom degli studi ebraici su Gesù, speculare ai numerosissimi
studi cristiani sul giudaismo.
La
domanda che si pongono questi studiosi è
in che misura Gesù possa avere un valore morale e religioso per loro.
Max Nordau, collaboratore di Theodore Herzl, il fondatore del sionismo, scrisse
all'inizio del secolo: "Gesù è l'anima della nostra anima, è la carne
della nostra carne. Chi potrebbe dunque escluderlo dal popolo ebraico?". Un
altro grande studioso ebreo, Ben Chorin dice: "Gesù è una figura centrale
della storia del popolo ebraico e della sua fede…Egli è parte non solo del
nostro passato e presente, ma anche del nostro futuro, non diversamente dai
profeti della Bibbia ebraica, che noi appunto sappiamo vedere non solo nella
luce del passato". E più avanti dice "la fede di Gesù ci
unisce, la fede in Gesù ci divide".
Addentrandoci nella lettura emerge come Lapide ritenga che l'aspetto più
rilevante dei fondamentalismi sia la lettura letterale dei libri sacri,
nel nostro caso della Bibbia. Ecco alcune definizioni molto pregnanti tratte dal
testo:
"Il
testo biblico va colto nel suo senso profondo, non bisogna fare della bibliolatria".
"L'adorazione
letterale della Scrittura costituisce in ultima analisi la
trasgressione del comandamento sul divieto delle immagini (Es. 20,4-5)".
"E'
un pio errore credere che si possa fissare a livello di linguaggio il Dio
dell'universo, metterlo nero su bianco".
"Si
può comprendere il vivo desiderio di una parola definitiva, dotata di autorità
divina in grado di sconfiggere il groviglio
delle diverse interpretazioni, ma sulla terra ogni capacità espressiva
deriva dal nostro mondo esperienziale terrestre, e vale solo per le realtà
finite, terrene e mortali. Dio e le sue insondabili vie sfuggono alla nostra
comprensione e possono solo essere espresse per allusioni nella poesia,
nell'allegoria e nella mistica".
Poiché
tutte le lingue sono dinamiche, imprecise e relative, nessuna può esprimere in
modo adeguato e immutabile l'Assoluto, l'Eterno. Ogni discorso su di Lui è un balbettio,
un tentativo di dire ciò che è indicibile: non Lo si potrà mai
afferrare attraverso il linguaggio umano. Quante parole nel nostro vocabolario,
si domanda Lapide, hanno cambiato di significato lungo i secoli? Come ci si può
aspettare che molte delle parole greche e delle espressioni ebraiche, antiche di
secoli, scritte in un determinato contesto storico, ci dicano oggi le stesse
cose che esprimevano allora? Detto questo però, se non vogliamo rinunciare ad
ogni discorso su Dio o rifugiarci nell'estatico rapimento dei mistici, siamo
obbligati a parlare di Dio attraverso un linguaggio umano, ad
antropomorfizzarlo. E così nella Bibbia vediamo che, ad un divieto delle
immagini, si accompagna un Dio che ha braccia, occhi, viso e
perfino un di dietro. Il fatto che la Bibbia parli di Dio in modo
variegato, immaginoso, colorito, mette in risalto 4 aspetti:
1.
la vitalità e la varietà della rivelazione divina
2.
che l'amore ha bisogno di immagini, si smarrisce di fronte
all'inafferrabile
3.
che i testimoni biblici, presi dalla loro esperienza, moltiplicano nomi,
immagini, descrizioni
4.
che è proprio questa varietà d'immagini che impedisce di imprigionare
Dio in una sola immagine, rendendolo un idolo fisso, definibile, manipolabile
Esistono
solo 2 modi di approccio alla Bibbia: prenderla alla lettera o prenderla sul
serio. Coloro che la prendono
alla lettera la riducono ad "un Papa di carta". Coloro che la
prendono sul serio, che hanno il coraggio d'interrogare il testo, di valutarlo
criticamente, "sperimenteranno un soffio di quello spirito che soffia
dove vuole, ma che continuamente vivifica, aiuta ad acquisire nuove visioni e
lascia intravedere la traccia del Dio vivente, del quale non si può
disporre e che spinge sempre in avanti" . Una volta si immaginava, e
molti lo immaginano ancora adesso, che la sacra Scrittura fosse stata dettata
parola per parola da Dio stesso, quale unico autore. Questa viene definita ispirazione
verbale; scoprire uno svarione era considerato un atto blasfemo. Tutto era
considerato dettatura ispirata di Dio. Ci vollero diversi secoli di studi
biblici, l'illuminismo e la teologia critica, perché ci si accorgesse che
ciascun libro della Bibbia era il frutto della collaborazione di diverse
persone; che inizialmente vi era stata la parola orale, messa per iscritto solo
in seguito; che i redattori avevano attinto a fonti più antiche e aggiunto le
proprie riflessioni, per cui lo scritto attuale va considerato come la fase
conclusiva di un lungo processo evolutivo.
Una
fede matura ci fa dire con Martin Buber:"la vera rivelazione non
significa che un contenuto divino si è riversato in un recipiente umano vuoto;
la vera rivelazione significa la scomposizione della luce divina nella
molteplicità umana(…) non conosciamo altra rivelazione se non quella
dell'incontro del divino e dell'umano, incontro al quale l'umano partecipa
effettivamente. Il divino è un fuoco che fonde il metallo umano, ma ciò che ne
risulta non ha la natura del fuoco". Noi possiamo riconoscere le tracce
e ascoltare la verità di Dio nell'espressione umana dei suoi messaggeri
ed inviati. Lohfink dice:"Qui sulla terra quando
Dio parla, noi non ascolteremo mai la pura, assoluta parola di Dio; prima che
noi la ascoltiamo, essa è sempre penetrata nella nostra realtà umana e
terrestre".
Ogni
frase biblica è il risultato di una doppia traduzione: è, in primo luogo,
espressione orale del messaggio divino da parte di quei primi testimoni, che
hanno dovuto ricorrere a tutti i registri del loro povero patrimonio lessicale
per rivestire in parole umane l'impulso proveniente dall'alto e, in secondo
luogo, la messa per iscritto da parte dei loro successori, i quali hanno dovuto
far passare le cose udite attraverso le loro orecchie, la loro intelligenza, le
loro mani. Tre inevitabili fonti di errori, che non hanno mai risparmiato il
messaggio biblico prima che giungesse alla redazione scritta.
A
questo si deve sommare la difficoltà delle traduzioni in altre lingue, in cui
si dovrebbe costruire un dialogo fra testo e traduttore, fra la lingua straniera
e la sua lingua materna. Quindi si può ben dire che "ogni traduzione
è sostituzione", una sostituzione che non riproduce mai pienamente
il testo originario e il suo senso profondo, poiché non esistono due lingue la
cui semantica combaci perfettamente. Anche la migliore traduzione è
necessariamente soggettiva e contiene sempre, che il traduttore ne sia o no
cosciente, una parte del proprio io, un inizio di commento.
Un
esempio emblematico di ciò che andiamo dicendo è l'espressione "parola
di Dio", molto usata in ambito cristiano, con il pesante significato
letterale che si è portata dietro, frutto di una lunga involuzione. Il termine
ebraico, centrale nell'espressione profetica, è dabar che indica anche
parola, ma ha un senso più ampio, può significare: discorso, affermazione,
oggetto, cosa, richiesta, evento, faccenda o storia. Tutte espressioni che sulla
bocca dei profeti e nella Bibbia hanno un
senso molto più complesso e diversificato e mai di "dettatura"
del messaggio divino. Quando però la Bibbia venne tradotta in greco (nel III
secolo a.C.) il termine dabar venne
reso in modo riduttivo con logos, che preservava
ancora molto del significato originario, ma apriva ad ulteriori interpretazioni.
Così quando il testo venne ulteriormente tradotto nella vulgata latina
(V secolo a.C.), si giunse alla traduzione con verbum Dei, inteso come
"dettatura" dal cielo pronta per la stampa.
La
vera insidia per i traduttori della Bibbia è la polisemia delle parole
fondamentali ebraiche: shalom ad esempio non significa solo pace,
ma anche prosperità, incolumità, benessere, gioia, riconciliazione, verità,
comunione e armonia. In ogni traduzione della Bibbia sono stati commessi degli
errori, a partire dalla prima in lingua greca, quella detta dei settanta: errori
di lettura; errori nella copia di lettere simili: M e N o U e V; scambio di
lettere sugli scrittoi dei monasteri, durante la dettatura, quando l'orecchio
poteva ingannare al pari dell'occhio; errori di valutazione, come nella
scrittura continua, senza spazi fra le parole, che veniva usata negli antichi
manoscritti greci, dove poteva capitare che si congiungessero o si separassero
le parole in modo errato.
Quasi
tutte le traduzioni della Bibbia evidenziano anche cambiamenti intenzionali del
testo quando questo non si adattava alla teologia o ideologia del traduttore e
del momento. Ad es: Matteo, per confermare la nascita verginale di Gesù,
traduce Is 7,14 con "ecco la vergine concepirà", traducendo
con "vergine" il termine che nel testo originale è alma
e vuol dire giovane donna, mentre
il termine ebraico
per vergine è betulah.
L'ebraicità
dei vangeli
La
Bibbia ebraica è evoluta e maturata per oltre un millennio, prima di essere
fissata nel canone (90 d.c. il canone ebraico - 327/393 il canone cristiano). Il
nuovo testamento è il frutto di una evoluzione teologica durata un secolo. I
vangeli sono stati scritti in greco, ma tutto il primo materiale scritto, da
cui gli evangelisti hanno attinto: la fonte Q (comune a Mt. e Lc. ed assente in
Mc.), L (materiale esclusivo non preso da Q nè da Mc.), M (i detti di Gesù
ecc.) erano certamente scritti nella lingua madre di Gesù e delle prime comunità,
quindi in aramaico o in ebraico. Lapide all'interno degli studiosi è quello che
maggiormente sottolinea questo aspetto rafforzandolo con la citazione del
vescovo Papia, 135 d.C., che è
l'affermazione più antica sulla storia della formazione dei vangeli.
Papia dice che Matteo raccolse le sentenze di Gesù e redasse quest' opera in
ebraico. La lingua e le
categorie greche in cui sono state tradotte le prime fonti non rendono
tutta la pienezza del patrimonio di fede di Gesù. Già Lutero diceva:
"…Infatti il nuovo testamento, pur essendo scritto in greco è pieno di
ebraismi e del modo ebraico di esprimersi. Perciò giustamente è stato detto: gli
ebrei bevono alla fonte; i greci dai rigagnoli, che scorrono a partire dalla
fonte; i latini alle pozzanghere."
Nei
vangeli ci sono 456 citazioni e parafrasi della Bibbia ebraica, se li
togliessimo nessuno riuscirebbe a leggere, in ciò che rimane, una relazione
coerente e compiuta. Solo in Matteo, in oltre 120 casi, si è fatta violenza
alla sintassi greca per riprodurre fedelmente, al di là del possibile, la
successione delle parole e la costruzione della frase ebraica.
A
livello terminologico: regno dei cieli - salvezza -
regno di Dio ecc., in pratica l'intero vocabolario della salvezza, è
essenzialmente estraneo al greco classico ed è un prodotto originario
ebraico-biblico.
A
livello teologico: messianicità - risurrezione - fine dei tempi - storia della
salvezza ecc., cioè l'intera infrastruttura teologica ebraica, è stata
trasposta, più male che bene, nella lingua greca. Ma è facilmente
riconoscibile la sua origine ebraica.
Gli
idiomatismi: "di poca fede" - "operatore di pace" - "a
che possiamo paragonare" - "l'Altissimo" ecc. e decine di altri
ebraismi e arameismi ed espressioni e modi di dire sono costruiti in base
all'ebraico. Così come l'uso simbolico dei numeri: i dodici - 40 giorni…I
simboli numerali sono molti e nascondono significati molto più ricchi del
valore aritmetico.
Molti
punti e passi che sembrano oscuri, incomprensibili, sono spesse volte delle
traduzioni errate o falsate degli originali testi ebraici.
Per
15 secoli ci si è accontentati, nel mondo cristiano, della Vulgata latina che
è semplicemente la traduzione di una traduzione. Oggi ci si rende conto che
senza ebraico ed aramaico non è possibile avere un'autentica visione dello
spirito e della lettera originari dei vangeli. Nè Gesù nè la sua comunità
primitiva hanno mai pensato in greco o in latino. Essi hanno pensato, parlato,
scritto nelle categorie ebraiche.
La
fede cristiana sarà sempre all'interno della struttura della fede ebraica.
Silvano Leso