Le responsabilità della Chiesa sul "fine vita"
di Aldo Antonelli
“l'Huffington Post” del 27 febbraio 2017
Puntualmente, con le stesse acrimonie, con le stesse animosità, con le stesse intolleranze e con le stesse chiusure mentali, ritornano le guerre ideologiche sul "fine-vita". È stato così con Piergiorgio Welby nel 2006, idem con Eluana Englaro nel 2009 ed è così anche oggi con Fabiano Antoniani, più comunemente detto dj Fabo.
Gli anni passano, le situazioni di disumanità con i loro problemi si ripresentano e con essi, immancabilmente, si ripresentano anche i fossati di incomprensione e i muri di ottusità.
Al fine di un ragionamento più pacato e in vista di un reciproco rispetto tra le posizioni penso sia utile la riflessione sulle due tematiche che animano il dibattito: l'accanimento terapeutico e l'eutanasia. Per quanto riguarda l'accanimento terapeutico è bene sapere che anche la riflessione della chiesa ufficiale è stata ed è del tutto contraria.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica all'articolo 2278 recita: "L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha competenza e capacità".
Riguardo poi all'uso degli analgesici nell'articolo 2279 si legge: "L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile". Posto così il problema sembra risolto.
L'interrogativo si pone quando, considerati i grandi progressi della medicina, si tratta di distinguere il dovere di cura dall'accanimento terapeutico. Dove finisce l'uno e comincia l'altro?
Qui, naturalmente, si richiede un altissimo senso di responsabilità e una grande maturazione di coscienza. Quanto all'eutanasia, è pur vero che la Chiesa Cattolica è di per sé contraria, ma va anche detto che nel panorama della riflessione teologica non mancano posizioni dall'atteggiamento "possibilista".
Tali ipotesi, dopo tutto, si fondano su un principio comunque incontestato, anche se completamente rimosso nell'attuale dibattito. Si parte dal principio che per un cristiano la vita non è "il bene assoluto" cui tutto subordinare!
Tanto è vero che il sacrificarla per altri alti valori (la giustizia, la fede, la castità etc.) è ritenuto, dalla tradizione cristiana, un atto di eroismo e di santità. Rebus sic stantibus, direbbero i filosofi, perché ritenere immorale il cessare di vivere quando la vita ha perso ogni connotato di relazionalità con gli altri, ogni traccia di autocoscienza, ogni altra dimensione che, andando oltre la pura "vegetalità", dia dignità al vivere stesso? Personalmente ho avuto modo, in più di un'occasione, di trovare più dignitoso il gesto disperato di un suicida che non il pecoreccio vivacchiare di gente senza scrupoli.
Il teologo tedesco Hans Küng, poi, si spinge anche oltre. Dall'affermazione che "il diritto alla vita non può essere scambiato per una coercizione a vivere" alla tesi che "essendo l'inizio della vita umana posto da Dio nelle mani della responsabilità dell'uomo, si può analogamente pensare che anche la fine della vita venga da Dio posta sotto tale responsabilità".
Il problema dell'eutanasia va correlato sì alla morte, ma questa a sua volta va connessa strettamente alla nozione di "vita" che è qualcosa di molto più alto che il semplice vegetare. L'arroccamento della Chiesa in difesa della vita a prescindere da tutto, dalle condizioni oggettive e soggettive e perfino dalle persone stesse che della vita dovrebbero essere le beneficiarie, lo trovo anche antievangelico come di colui che sacrifica le persone concrete ai principi astratti e che antepone il sabato all'uomo. Una morale autenticamente evangelica dovrebbe stabilire delle finalità di vita piuttosto che esporre regole di condotta.
Sia chiaro: non si vuole con ciò legittimare la trasformazione della tecnica in strumento di morte né benedire l'ambiguità profonda di una scienza che diventa un delirio di onnipotenza. No! La complessità del problema non deve spingere nessuno a una apertura qualunquista e superficiale, ma non deve nemmeno imprigionare le possibili scelte dentro la cremagliera della condanna più assoluta.
Giustamente, il teologo Giannino Piana scrive, a proposito di eutanasia: "Al di là delle complesse e delicate questioni di ordine politico e giuridico, che vanno affrontate con grande prudenza in una prospettiva non puramente individualista ma attenta ai risvolti sociali e culturali delle decisioni, il nodo fondamentale che occorre sciogliere riguarda l'esistenza o meno del diritto di autodeterminazione nei confronti della morte".
Anche qui, fronte al radicale rifiuto del diritto di autodeterminazione da parte della chiesa ufficiale, a partire dal presupposto che la vita è un dono di cui noi non possiamo disporre, vanno emergendo, sempre in ambito cattolico, ipotesi alternative (sia pure minoritarie).
Intanto già di fronte alla motivazione addotta contro ogni forma di eutanasia sorgono domande che qualcuno potrebbe trovare "impertinenti" ma che toccano il cuore della teologia. Si dice, appunto: "La vita è un dono di Dio di cui l'uomo non può pienamente disporre". Ma, ci si domanda, che dono è ciò che non viene pienamente e definitivamente dato?
E che responsabilità è quella per cui si è costretti a gestire la vita per conto terzi? E questo Dio che concede con una mano e trattiene con l'altra cosa ha a che fare con quel Dio che "dona oltre ogni misura"? Sono forse due "Dio" diversi?
Si ha l'impressione, insomma, che la posizione della chiesa ufficiale sia fondata più su preoccupazioni ideologiche che su motivazioni teologiche.