Il mondo in fiamme?

Naomi Klein  
Tratto da: Adista Documenti n° 26 del 15/07/2017

Dopo l’annuncio di Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall'accordo climatico di Parigi e la sacrosanta mobilitazione degli ambientalisti dinanzi a questo voltafaccia distopico, è il momento di parlare senza mezzi termini: praticamente tutti i punti deboli, deludenti e inadeguati dell'Accordo di Parigi sono il risultato dell’azione di lobbying nordamericana a partire dal 2009.

Il fatto che l'accordo impegni i governi a contenere l'aumento della temperatura della Terra entro i 2 gradi anziché entro la soglia più certa e sicura del grado e mezzo è una conquista della lobby degli Stati Uniti.

Il fatto che l'accordo lasci a ogni nazione la responsabilità di decidere quali sforzi compiere perché tale meta sia raggiunta, consentendo a ciascun Paese di arrivare a Parigi con impegni tali da spingerci su una strada disastrosa che porterà a un aumento della temperatura di oltre 3 gradi, è una conquista della lobby degli Stati Uniti.

Il fatto che l'accordo consideri non vincolanti persino impegni così insufficienti, di modo che i governi, a quanto pare, non avrebbero nulla da temere qualora li ignorassero, è un'altra conquista della lobby degli Stati Uniti.

Il fatto che l'accordo proibisca espressamente ai Paesi poveri di perseguire un risarcimento finanziario per i danni causati da catastrofi climatiche è una conquista della lobby degli Stati Uniti.

Il fatto che il documento firmato a Parigi sia un “accordo” e non un trattato – e persino che Trump possa inscenare il suo ritiro dall'accordo in slow motion mentre il mondo va a fuoco dietro di lui – è una conquista della lobby degli Stati Uniti.

Potrei parlare di questo per ore e ore. Di come, per esempio, per molto tempo, gli Usa abbiano potuto contare sull'aiuto di “illustri” petro-Stati come l'Arabia Saudita per questo sabotaggio sotterraneo. Premendo agressivamente per indebolire l'Accordo di Parigi, i negoziatori nordamericani hanno fatto normalmente leva sull'argomento che un accordo più corposo sarebbe stato bocciato dalla Camera e dal Senato degli Stati Uniti, controllati dai repubblicani. Probabilmente è vero. Ma alcune delle misure che hanno indebolito l'accordo – specialmente quelle che tentano di ridurre la disuguaglianza tra Paesi ricchi e Paesi poveri – sono state eliminate nient’altro che per abitudine, perché è la cura degli interessi delle imprese nord-americane ciò su cui si impegnano gli Stati Uniti nei negoziati internazionali.

Qualunque siano stati i motivi, il risultato finale è stato un accordo basato su un obiettivo decente di contenimento della temperatura, ma il cui piano previsto per raggiungerlo è fragile e tremendamente debole. James Hansen, il climatologo indiscutibilmente più rispettato del mundo, ha definito l'accordo «una falsità, una frode», perché «non sono previste azioni, ci sono solo promesse».

Tuttavia, debole non è sinonimo di inutile. Il potere dell'Accordo di Parigi è sempre consistito in ciò che i movimenti sociali hanno deciso di farne. Fissare un impegno chiaro a contenere il riscaldamento al di sotto dei 2 gradi celsius, mirando al tempo stesso a «limitare l'aumento di temperatura a 1,5º C», significa che non c'è spazio nel bilancio globale di carbonio per la scoperta di nuove riserve di combustibili fossili.

Questo semplice fatto, pur in assenza di un obbligo giuridico, è stato un potente strumento nelle mani dei movimenti contro nuovi oleodotti, campi di fracking e miniere di carbone, e anche nelle mani di giovani coraggiosi, i quali mirano a trascinare il governo degli Stati Uniti davanti alla Giustizia per mancata protezione del loro diritto a un futuro sicuro. E, in molti Paesi, compresi, fino a poco fa, gli stessi Stati Uniti, il fatto che i governi parlino di questa meta e facciano il contrario li ha resi vulnerabili a questo tipo di pressione popolare. Come ha detto il giornalista e co-fondatore di 350.org, Bill McKibben, il giorno in cui l'Accordo di Parigi ha visto la luce, «avendo i leader mondiali fissato l'obiettivo di 1,5º C, noi faremo pressioni da matti perché tengano fede al loro impegno».

In molti Paesi, questa strategia continua a funzionare, indipendentemente da Trump. Alcune settimane fa, per esempio, una delegazione degli Stati insulari del Pacifico si è recata presso le sabbie bituminose di Alberta per esigere che il primo-ministro canadese Justin Trudeau arresti la produzione di questa fonte di combustibile caratterizzata da un uso intensivo di carbone, argomentando che il mancato impegno a evitarne lo sfruttamento avrebbe contraddetto le belle parole e le promesse da lui pronunciate a Parigi.

È stata questa la pratica del movimento globale per la giustizia climatica rispetto a Parigi: cercare di spingere i governi oltre il debole contenuto dell'accordo. Il problema è che, nel momento stesso in cui Trump è arrivato alla Casa Bianca, è risultato perfettamente chiaro che Washington era immune a queste pressioni. Tanto da far sembrare un po' ridicoli quanti hanno reagito istericamente alla notizia che Trump si stava ritirando dall'accordo. Sapevamo bene che questo era nei suoi piani. Lo sapevamo dal momento della nomina di Rex Tillerson al Dipartimento di Stato e di Scott Pruitt all'EPA (l'Agenzia ambientale degli Stati Uniti). E ne abbiamo avuto la conferma con la sua autorizzazione all'inizio dei lavori per la costruzione degli oleodotti Keystone XL e Dakota Access Pipeline durante la prima settimana del suo mandato.

Per mesi abbiamo assistito al braccio di ferro tra chi voleva che gli Usa restassero nell'accordo (Ivanka Trump e Rex Tillerson) e chi voleva che ne uscissero (Scott Pruitt, Steve Bannon, capo stratega della Casa Bianca, e lo stesso Trump). Ma il fatto stesso che Tillerson (fortemente legato alle imprese petrolifere) potesse essere l'ago della bilancia in tale disputa mostra l'assurdità della situazione.

Sono state imprese petrolifere come quella per cui Tillerson ha lavorato per 41 anni a garantire con la loro instancabile azione di lobbyng che gli impegni assunti a Parigi non avessero meccanismi  vincolanti. Per questo, a un mese dall'accordo, la Exxon Mobil, con Tillerson ancora al comando, aveva affermato in un rapporto: «Contiamo che il petrolio, il gas natural e il carbone continuino a soddisfare circa l'80% della domanda globale entro il 2040». Una pura espressione della consueta arroganza delle imprese. La Exxon sa molto bene che, se si vuole avere una chance decente di contenere il riscaldamento al di sotto della soglia di 1,5-2 gradi, che è l'obiettivo dichiarato dell'Accordo di Parigi, l'economia globale deve abolire i combustibili fossili entro la metà del secolo. Ma la Exxon ha offerto queste garanzie agli investitori – sostenendo di appoggiare l'accordo – perché sapeva che l'Accordo di Parigi non aveva forza vincolante.

È la stessa ragione per la quale la fazione di Tillerson dell'amministrazione Trump ha pensato di poter conciliare la permanenza nell'Accordo di Parigi con lo smantellamento della componente centrale dell'impegno assunto dagli Stati Uniti nell'accordo, il Clean Power Plan. Tillerson, più di qualunque altro al mondo, sa quanto sia legalmente debole l'accordo. Come amministratore delegato della Exxon, ha contribuito a fare in modo che fosse così.

Allora, nel cercare di comprendere tutto questo, è importante non essere ingenui: l'amministrazione Trump non è mai stata divisa tra quanti volevano distruggere l'Accordo di Parigi e quanti volevano rispettarlo. Era divisa tra quanti volevano distruggerlo e quanti volevano portarlo avanti ignorandolo completamente. La differenza è solo nella prospettiva: in ogni modo, viene vomitata la stessa quantità di carbonio.

Alcuni dicono che non è questo il punto, che il rischio reale dell'uscita degli Stati Uniti è che questa incoraggerà tutti gli altri Paesi a ridurre le loro ambizioni e quindi a rompere con l'Accordo di Parigi. Forse, ma non necessariamente. Come il disastro di Trump nel campo della salute pubblica sta incoraggiando altri Paesi a prendere in considerazione per la prima volta dopo decenni un sistema sanitario pubblico, così l'incendio climatico di Trump ha alimentato solo una maggiore ambizione climatica in Stati come la California e New York. Invece di gettare la spugna, coalizioni come New York Renews, che sta esercitando pressioni sullo Stato di New York  per un utilizzo del 100% di energia rinnovabile entro il 2050, stanno diventando sempre più forti.

Neppure al di fuori degli Stati Uniti i segnali sono così cattivi. La transizione verso le energie rinnovabili avviene già in maniera accelerata in Germania e in Cina: i prezzi cadono così velocemente da indurre forze molto più potenti di Trump a spingere verso tale cambiamento. Chiaro, è ancora possibile che il ritiro di Trump provochi un regresso climatico globale. Ma è anche possibile che avvenga il contrario: che, qualora gli Stati Uniti diventino realmente nocivi, altri Paesi, sotto la pressione di popolazioni furiose per le azioni di Trump, aumentino le loro ambizioni, potendo addirittura decidere di indurire l'Accordo senza più l'ostacolo rappresentato dai negoziatori statunitensi.

C'è poi un punto sempre più auspicato dai movimenti sociali di tutto il mondo: quello di sanzioni economiche contro gli Stati Uniti dinanzi al vandalismo climatico di Trump. Guardate un po' che follia: benché ciò non sia previsto dall'Accordo di Parigi, se uno decide di dare fuoco al mondo, dovrebbe pagarne il prezzo. E questo deve essere vero anche se si tratta del governo degli Stati Uniti o della Exxon, o di una qualche bizzarra fusione tra i due.

Un anno fa, l'idea che gli Stati Uniti dovessero affrontare una punizione tangibile per il fatto di mettere in pericolo il resto dell'umanità avrebbe suscitato ilarità negli ingranaggi dell'establishment: nessuno metterebbe a rischio le proprie relazioni commerciali per una cosa piccola come il pianeta Terra. Ma questa settimana, nella sua colonna sul Financial Times, Martin Wolf ha scritto: «Se gli Stati Uniti si ritirano dall'accordo di Parigi, il resto del mundo deve considerare l'ipotesi di sanzioni contro di essi».

Siamo molto lontani dalla possibilità che i soci commerciali degli Stati Uniti adottino una misura così drastica, ma non sono solo i governi a poter imporre punizioni economiche per questo tipo di comportamento immorale. I movimenti sociali possono invitare a boicottaggi e disinvestimenti, come venne fatto contro il regime di apartheid sudafricano. Non solo contro le imprese petrolifere, ma anche contro il conglomerato di Trump. La pressione morale con lui non funziona, ma quella economica forse sì. Forse è arrivato il momento di sanzioni economiche da parte dei consumatori.