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Si chiama civiltà l’obiettivo comune

 

Chiara Saraceno

“la Repubblica” del 16 maggio 2017

 

Paradossale e istruttiva coincidenza quella che nello stesso giorno ha visto i giudici della Corte di Cassazione sentenziare che i migranti devono sempre conformarsi ai “nostri valori” e la polizia arrestare i responsabili di un cosiddetto centro di accoglienza di Crotone, dove i migranti erano diventati un business lucroso controllato dalla mafia con l’avallo di notabili locali, inclusi uomini di chiesa. Quello dello sfruttamento dei migranti è un fenomeno, anche quando non individuabile tout court come criminale, molto più frequente di quanto non si voglia ammettere. Ce lo documentano periodicamente le foto e i filmati di persone ammassate, con servizi igienici e talvolta persino letti insufficienti, cibo scarso e fornito senza cura, persone lasciate a se stesse e al potere dei più forti. La responsabilità di questo fenomeno è sicuramente di chi lucra, appunto, sull’accoglienza. Ma è anche dello Stato. Stato che finge di ignorare che concentrare masse di persone tutte insieme, affidandole a “impresari dell’accoglienza” che nulla sanno in che cosa questa consista, è la via sicura per creare emarginazione, imbrogli, maltrattamenti. Vittime di questa situazione sono anche le comunità che vivono accanto a questi luoghi di degrado, che pure hanno tutte le ragioni per protestare non già contro la presenza dei migranti, quanto per le loro condizioni, che hanno un effetto di degrado per l’intera comunità. Ma le prime vittime sono i migranti stessi. Collocati in quei centri dall’autorità dello Stato, trattati come e talvolta peggio che bestie da chi per loro rappresenta il primo contatto con la nostra “civiltà”, i “nostri valori”, che idea se ne faranno, dei valori e di noi? Come faranno ad imparare “i nostri valori”, se i primi a negare i valori basilari del rispetto della dignità altrui e dei diritti umani sono coloro cui lo stato li affida, anche contro la loro volontà?

Ma torniamo alla sentenza della Corte di Cassazione che, prendendo spunto dalla questione della liceità o meno di portare con sé un coltello in quanto oggetto rituale, si allarga, appunto, ad evocare tout court i “valori” come riferimento di ogni norma comportamentale, cui chi appartiene ad un’altra cultura dovrebbe appunto, conformarsi. Francamente mi sembra un uso improprio e rischioso del riferimento ai valori, quando si tratta semplicemente di vietare di portare con sé ciò che potrebbe diventare un’arma. È una norma di prevenzione, per altro non condivisa, purtroppo, neppure da tutti i paesi occidentali con cui orgogliosamente ci identifichiamo (si pensi alla disinvoltura con cui si afferma il diritto a portare le armi negli Stati Uniti). Con il riferimento ai valori anche su questioni di abitudini si rischia di aprire ad ogni tipo di arbitrio e confusione. Se per qualcuno indossare un particolare tipo di copricapo o di vestito ha a che fare con i suoi valori dovremo impedirglielo perché il capo scoperto e la minigonna fanno parte dei nostri valori? E chi lo ha deciso? E ancora, se dei “nostri valori”, come ahimè hanno sancito diverse sentenze con il benevolo avallo della Corte europea, fa parte il cristianesimo (meglio, la sua variante cristiana), obbligheremo i musulmani, gli ebrei, i non credenti a convertirsi o comunque aderire ai rituali religiosi? Cerchiamo di concentrarci davvero su quelli che dovrebbero essere i valori che ci contraddistinguono come soggetti civili e democratici, il rispetto dell’altro e della sua dignità come essere umano, e discutiamo di vestiario, comportamenti alimentari, ma anche pratiche religiose in modo più laico e non fondamentalista.