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Quel supplemento di passione che ci manca

 

Di Franco Barbero

 

da Tempi di Fraternità, maggio 2017

Faccio sempre una certa fatica a trovare le parole per esprimere al meglio la mia opinione rispetto al pontificato di papa Francesco. Tra gli "osanna" e i "crucifigge", mi sforzo di ragionare sui fatti.
Vedo in Francesco un cristiano appassionato ed un "gesuita francescano". Questo è ciò che di lui apprezzo maggiormente: sta da una parte precisa, quella dei poveri, dei disperati, dei deboli. Sui terreni della pace, della lotta alle disuguaglianze mi fa pensare ad Amos e ad Isaia.
I pastori della nostra chiesa e gran parte del popolo di Dio vedono in lui un riferimento chiaro, un rimando preciso a Gesù buon pastore. La sua non è retorica, né una sceneggiata religiosa, ma una testimonianza limpida che apre un varco in molti cuori e suscita tante opposizioni in chi difende la chiesa del palazzo o dell'immobilismo.
I suoi messaggi, come le priorità date nei suoi viaggi nelle varie periferie (carceri, migranti, disoccupati, anziani e bambini abbandonati...), suonano come un appello alla chiesa, alle religioni e alla politica affinché si parta dai problemi degli esclusi e delle escluse.
Ma chi osanna e chi fa opposizione cadono, a mio avviso, nello stesso errore. È innegabile che la "figura" del papa abbia un grande peso nella vita della chiesa, ma la "conversione" dei vari cristianesimi al messaggio evangelico è una "impresa" che va giocata in campo aperto, su molti terreni.
Essa ha bisogno del coinvolgimento di molti attori ecclesiali per cui esiste il rischio di sopravvalutare le posizioni del papa, di aspettarci troppo da Francesco e di non prendere abbastanza sul serio le nostre responsabilità personali e comunitarie.
Condivido pienamente quanto scrive Brunetto Salvarani:
"... Ritengo, inoltre, che non poche corresponsabilità della profonda crisi istituzionale in cui si sta dibattendo da tempo la chiesa cattolica siano da condividersi all'interno della chiesa stessa, a partire da noi cristiani feriali e da noi teologi, spesso autoridotti a essere pura eco del magistero di turno... Da troppo tempo ci siamo assopiti, per dir così, siamo rimasti troppo spesso puri spettatori silenziosi del naufragio in corso, coltivando semmai le arti perverse della maldicenza e del mugugno; e non abbiamo avuto coraggio di parlare con parresia (spesso, abbiamo agito di conseguenza e ci siamo occupati dei problemi meno spinosi, senza affrontare, ad esempio, la questione cruciale dell'odierno pluralismo religioso, letteralmente silenziata nel dibattito pubblico infraecclesiale). Con eccezioni, benemerite, ma isolate e non di rado eroiche, evidentemente".
Mi interessa riflettere su questo punto che ritengo determinante, cioè la responsabilità ecclesiale che ci accomuna. Se Francesco ha determinato un clima nuovo, noi teologi, pastori, uomini e donne di questa chiesa non ne abbiamo approfittato, non abbiamo giocato pienamente le nostre carte, non abbiamo dato corso ai tanti doni di Dio.
Sono prete da 54 anni. Non giudico assolutamente nessuno, ma trovo che le patologie dell'obbedienza e dell'intruppamento maggioritario continuano a prevalere in larga parte del tessuto ecclesiale. Le nostre chiese locali si gingillano con espressioni e relazioni ecumeniche e pastorali che, tutto sommato, si riducono ad operazioni cosmetiche, alla presentazione di una "maschera" tutta verniciata di misericordia e di accoglienza. Mi sembra che queste operazioni di facciata, senza voler negare le buone intenzioni, costituiscono e favoriscono la palude e la sonnolenza nelle nostre chiese locali. La routine spegne lentamente quasi ogni iniziativa di vero rinnovamento e, soprattutto, cerca di silenziare ogni esperienza che morda nelle carni dell'apparato istituzionale e dogmatico.
Penso che si possa amare la nostra chiesa prendendoci talvolta la libertà di andare oltre su molti punti, di trasgredire apertamente, di dissentire motivatamente, di aprire pratiche pastorali non conformi al catechismo o all'insegnamento tradizionale. Non posso in coscienza essere d'accordo con Francesco sul ruolo delle donne nella chiesa, sulla dogmatica mariologica, sul linguaggio del credo niceno-costantinopolitano, sull'insegnamento rispetto al modello unico di famiglia, sul rapporto escludente con le persone omosessuali e transessuali...
E non posso tacere alcune altre vistose contraddizioni. Papa Francesco parla con sincerità di abolizione dei privilegi, ma come vescovo di Roma sa bene che in Italia restano tuttora vigenti il concordato, l'esenzione dall'ICI, l'insegnamento confessionale della religione cattolica e una riscossione dell'otto per mille che privilegia la nostra chiesa. Ma c'è di peggio: papa Francesco parla con autorevolezza evangelica di pace e di disarmo, ma in Italia esiste la "chiesa in armi", la cappellania militare con tanto di vescovo-generale, preti con le stellette e tante "benedizioni" alle cosiddette missioni di pace a "mano armata".
Mi sento pienamente un cristiano e un prete che ama questa chiesa e ne è parte. Cerco umilmente, nello studio, nella preghiera e nell'azione pastorale, di gettare qualche piccolo seme evangelico nel proprio impegno quotidiano nel mondo e nella realtà ecclesiale. Anche se talvolta si disobbedisce, si compiono passi non benedetti dall'ortodossia, può darsi che proprio l'amore al Vangelo, la superiore obbedienza al messaggio di Gesù, stia alla base di questo dissenso amoroso. Ma solo Dio può mantenere vivo in noi quel supplemento di "imprudenza" e di passione che ci manca.
Forse ci dimentichiamo che siamo discepoli e discepole di quel Gesù di Nazareth che ogni giorno si convertì a Dio e ai poveri accogliendo nel proprio cuore il fuoco profetico che lo trasforma in testimone appassionato del regno di Dio.