Tratte dal libro "Oltre le religioni" di John Shelby Spong - Maria lopez Vigil Roger Lenaers - Josè maria Vigil - Gabrielli editori
Tesi 1
Il teismo come modo di definire Dio è morto. Non possiamo
più percepire Dio in modo credibile come un essere dal potere
soprannaturale, che vive nell' alto dei cieli ed è pronto a intervenire
periodicamente nella storia umana, perché si compia la sua
divina volontà. Pertanto, oggi, la maggior parte di ciò che si dice
su Dio non ha senso. Dobbiamo trovare un nuovo modo di concettualizzare
Dio e di parlarne.
Considerando che questa tesi è determinante per tutte le altre,
impiegherò più tempo e occuperò più spazio ad affrontarla rispetto
a tutte le altre. È importante per noi cristiani ammettere la
crisi della fede in cui viviamo, per poter così comprenderne l'origine
e riconoscere che non può essere negata né ignorata.
La persona che, a mio giudizio, diede inizio a una nuova visione
della realtà che ancora oggi sfida la credibilità del modo tradizionale
di esprimere la mentalità cristiana fu un devoto monaco polacco
di nome Niccolò Copernico, che visse in un'epoca lontana
come il XVI secolo. Tuttavia, pochi in quel momento furono consapevoli
delle scoperte di Copernico e delle sue conclusioni, cosicché,
in realtà, egli morì senza aver mai sfidato la coscienza della
Chiesa. Nessuno comprese la profondità della rivoluzione cui
Aveva dato origine, tant'è che morì nel seno della Madre Chiesa.
il successore intellettuale immediato di Copernico fu un astronomo
italiano del XVII secolo, Galileo Galilei, anche lui, come
Copernico, profondamente cattolico. Non solo aveva una figlia
suora, ma egli stesso era noto nei circoli più alti del Vaticano, che
si fidavano di lui. Era amico di colui che al tempo esercitava il ministero
papale, sedendo sul soglio di Pietro. Galileo si era costruito
il suo telescopio e, come Copernico, studiava il movimento dei
corpi celesti, cercando sempre di comprendere la relazione tra gli
uni e gli altri e tra tutti questi e la Terra. Ed era giunto a condividere
la teoria di Copernico sulla localizzazione del sole al centro
dell'universo. Per quanto sembrasse una teoria radicale e rivoluzionaria,
Copernico era sicuro che la relazione della Terra con
questo Sole che stava al centro fosse quella di un satellite che gli
girava intorno, in un ciclo annuale. Questa idea combaciava con
le conclusioni cui Galileo era giunto e rispondeva a molte delle
sue domande, motivo per cui, lentamente ma con sicurezza, aveva
finito per accettare quella che con il tempo sarebbe stata chiamata
"la rivoluzione copernicana". A differenza di Copernico, tuttavia,
Ga1ileo, non viveva in convento. Era un noto scienziato, una figura
pubblica a tutto tondo. E neppure si asteneva dallo scrivere
e dal pubblicare le sue scoperte. Fu proprio al momento di farlo
che scoprì che le sue opere stavano provocando dibattiti e controversie
che lo avrebbero inevitabilmente condotto a uno scontro
diretto con la gerarchia della Chiesa cattolica. In quel momento
storico, la Chiesa era ancora una potente forza politica. li suo
potere era nella sua pretesa, ampiamente accettata, di avere l'autorità
per parlare in nome di Dio. Ciò significava che i capi della
Chiesa cattolica avevano tanto la necessità politica quanto un desiderio
egolatra di controllare il pensiero, definire la verità e interpretare
la realtà per tutto il mondo. Di certo, qualunque dubbio,
da qualsiasi parte venisse, che potesse erodere questo aspetto del
ruolo della Chiesa avrebbe senza dubbio rappresentato una sfida
alla sua autorità.
Si riteneva che la verità posseduta e preservata dalla Chiesa fosse
stata ricevuta come frutto della rivelazione divina. Si era insegnato
alla gente a credere che questa verità non solo fosse stata
rivelata in Gesù Cristo, ma che fosse anche stata plasmata nei termini
pressoché certi di una cosmologia indiscussa e indiscutibile.
Tale cosmologia poteva essere enunciata in maniera semplice:
Dio abitava al di sopra del cielo; la Terra era al centro non solo
dell'universo ma anche dell' attenzione di Dio. Lo sguardo divino
che tutto vede nel mondo dal suo regno celestiale assisteva Dio
nel compito di registrare tutte le azioni e i misfatti di ogni essere
umano. Si conservavano registri delle azioni umane, che costituivano
la base su cui ogni esistenza umana sarebbe stata giudicata
alla fine dei tempi. E quello era il momento in cui si sarebbe anche
deciso il destino eterno della persona.
La Chiesa e il suo sistema di fede funzionavano, così, come un
sistema di controllo incredibilmente potente del comportamento
umano. Era questo, in sostanza, che tanto Copernico quanto
Galileo sembravano mettere direttamente in discussione. Era una
Sfida non solo a ciò che si percepiva come la verità, ma anche al
Potere politico. Non poteva essere ignorata. Così, Galileo venne
Accusato di eresia. Alla fine, venne condannato. Il castigo abituale
Per l'eresia a quel tempo era la morte con il fuoco, vale a dire che
l'eretico veniva bruciato sul rogo.
li processo a Galileo ebbe molta risonanza. Non solo le sue
idee vennero severamente attaccate, ma gli ecclesiastici incaricati
diportare avanti l'indagine le misero anche in ridicolo. La visione di
Galileo era considerata contraria alla "Parola di Dio" così
Come rivelata nelle Sacre Scritture, che, in quel momento, si credeva fossero
state dettate da Dio in maniera letterale. Se Galileo
aveva ragione, la Bibbia e la Chiesa si sbagliavano. Questa era la
conclusione ecclesiastica che avrebbe segnato il destino di Galileo.
Quasi in ogni pagina della Bibbia c'era un racconto secondo
Cui Dio viveva nell' alto dei cieli, nello strato superiore di un universo organizzato
su tre livelli. Dio aveva mandato la pioggia dal
cielo ai tempi di Noè e del diluvio (Gen 7). Nel libro della Genesi,
la gente aveva voluto costruire la torre di Babele, talmente alta
da toccare il cielo, dove si credeva che vivesse Dio (Gen 13). Era
scritto che il patriarca Giacobbe in sogno avesse visto una scala
che collegava la terra al cielo e su questa scala vi fossero angeli
che salivano e scendevano (Gen 28). Si diceva di Mosè che aveva ricevuto la
Torah da Dio, sceso dal cielo sulla cima del monte Sinai per
consegnargli direttamente quelle tavole di pietra che
contenevano i dieci Comandamenti (Es 20). Nel libro di Giosuè,
il successore di Mosè aveva pregato Dio, nel mezzo dei rigori della battaglia,
di fermare il sole nel suo movimento celeste intorno
alla terra, affinché il suo esercito disponesse di più ore di luce per
distruggerei nemici (Gs IO). Elia era stato trasportato in cielo,
nel regno di Dio, su un carro magico di fuoco trainato da cavalli
ugualmente magici, ed era stato sospinto verso la gloria da un turbine potente
che, inviato da Dio, veniva dal cielo (2Re 2).
I presupposti biblici su cui poggiava l'idea che Dio vivesse
Nell’alto dei cieli non si trovavano solo in quello che i cristiani
Chiamano Antico Testamento. Secondo il Vangelo di Matteo, al
Momento della nascita di Gesù, Dio aveva posto in cielo una nuo-
va stella per annunciarlo (Mt 1). L'autore del Vangelo di Luca
scrive che angeli erano apparsi in cielo, nell' oscurità della notte,
per annunciare la sua venuta ai pastori che facevano la guardia al
loro gregge (Le 2). Si sarebbe poi detto che Gesù era stato assunto
in cielo, al di sopra della terra, per stare con Dio (At 1). Tutte le
sezioni della Bibbia presuppongono che la Terra si trovi al centro
di un universo disposto su tre livelli.
Galileo aveva sfidato questa antica e universalmente accettata
visione del mondo e, in tale processo, aveva destabilizzato questo
sapere tradizionale, fino ad allora solidamente costituito. Aveva
alterato la forma dell'Universo. L'intuizione di Galileo espelleva
Dio dalla sua divina dimora e, in fin dei conti, lo trasformava in
un senza tetto. Se Dio non abitava in cielo, dove si trovava? Per
gli esseri umani, Dio non poteva vivere in nessun altro luogo. li
pensiero di Galileo, pertanto, scuoteva le fondamenta della visione
cristiana del mondo. Non sorprende che al processo fosse
ritenuto colpevole di eresia. La condanna era la morte sul rogo.
Tuttavia, a causa della sua età avanzata e della sua fragile salute, e
grazie ai suoi legami con le alte sfere del Vaticano, si giunse a un
accordo con 1'accusa. Galileo fu costretto a rinunciare alle proprie
conclusioni e ad ammettere pubblicamente di essersi sbagliato.
Accettò anche di non pubblicare mai più le sue idee in alcun
mezzo di comunicazione. Infine, dovette accettare una condanna
agli arresti domicili ari per il resto della vita. In cambio di queste
considerevoli concessioni, il tribunale vaticano gli risparmiò
la vita. La crisi era stata superata o almeno questo pensavano i
leader ecclesiastici.
La verità, tuttavia, non può essere respinta semplicemente perché
non risulta conveniente, e le scoperte di Galileo avevano la
verità dalla loro parte. Nel dicembre del 1991 il Vaticano avrebbe
finalmente annunciato che Galileo aveva ragione. A quel punto, i
viaggi spaziali erano cominciati. Le scoperte nel campo dell' astronomia
e dell' astrofisica erano aumentate esponenzialmente. Era
stato predisposto il telescopio Hubble e la consapevolezza della
vastità dell'universo iniziava a farsi spazio nella coscienza umana
in maniera incontrovertibile. Il risultato di questa controversia attorno
a Galileo era che Dio era stato definitivamente espulso. Le
Antiche interpretazioni sulla configurazione del mondo e sul concetto di
Dio a essa vincolato iniziavano a venire meno. Le nuove
Definizioni non si erano ancora chiarite del tutto, era ancora difficile assumerle
intellettualmente ed emotivamente.
TI cristianesimo e la sua autorità, tuttavia, cominciavano a traballare.
Questo vacillamento sarebbe diventato più intenso, molto
di più di quanto si percepisse allora, nella misura in cui, nella
coscienza umana, iniziavano a farsi strada altre scoperte, in altre
discipline. Galileo aveva fatto sì che il mondo sperimentasse
un periodo di trasformazione e di crescita rapidissime, cosicché,
precipitando tutti questi cambiamenti sulla coscienza umana, sarebbe presto
divenuto ovvio come il cristianesimo, così come era
stato inteso tradizionalmente, non trovasse più posto nel nuovo
mondo che stava nascendo.
L'anno della morte di Galileo nacque nella contea di Northumbria,
in Inghilterra, Isaac Newton. Era prima di tutto un matematico,
mala matematica lo condusse a una nuova comprensione sia
del funzionamento dell'Universo sia del mondo. Studiò la causalità,
la gravità e l'interrelazione di tutti gli esseri viventi. Non c'era
posto nell'universo di Newton per un Dio esterno che interviene in
maniera soprannaturale nella storia umana. I confini entro i quali
si realizzava ciò che chiamavamo "miracoli" si riducevano sensibilmente.
il concetto di miracolo avrebbe presto iniziato a scomparire dal vocabolario
umano e, infine, da tutte le nostre aspettative.
Un impatto che si sarebbe fatto sentire in molti aspetti della vita.
Quando gli esseri umani cominciarono a capire qualcosa sui
Fronti atmosferici e sulle loro cause, come pure su altre realtà geologiche,
si smise di credere che Dio controllasse fenomeni come
gli uragani, le inondazioni, la siccità o i terremoti. Nessuno pensò
più che tali eventi naturali fossero strumenti dell'ira di Dio o il
procedimento divino per punire le persone per i loro peccati. Gli
esseri umani spiegavano ora questi fenomeni come fatti naturali,
causati da realtà come i sistemi di bassa pressione in movimento
attraverso le acque calde dell'oceano o come lo spostamento delle placche tettoniche
molto al di sotto della superficie della terra.
Dio, espulso dal cielo da Galileo, cominciava ora a essere svincolato da qualunque
funzione relativa ai modelli climatici. In questo
momento, l'idea di Dio come un essere esterno a questo mondo
e ciononostante disposto e capace d'interferire in esso, batteva
già in ritirata. Improvvisamente, gli esseri umani non capivano
più perché fosse necessario un essere esterno al mondo chiamato
Dio o semplicemente cosa questo Dio facesse. I traumi nel concetto
tradizionale di Dio avrebbero continuato a farsi sentire man
mano che l'esplosione della conoscenza, derivante anche da altre
fonti, influiva su di noi. Ora, Dio non solo era senza tetto, ma,
progressivamente, stava diventando disoccupato. Non aveva più
nessun lavoro da svolgere.
Negli anni '30 del XIX secolo, il naturalista inglese Charles
Darwin iniziò il suo viaggio intorno al mondo a bordo della Beagle.
Questo viaggio avrebbe raggiunto il suo culmine nelle isole
Galàpagos, dinanzi alla costa dell'Ecuador, in Sudamerica. Qui
Darwin avrebbe trovato prove certe del fatto che l'evoluzione
delle specie fosse causata dall'interazione degli esseri viventi con
un ambiente in continuo cambiamento. Nel 1859 pubblicò le sue
scoperte nel libro J}origine delle specie per mezzo della selezione
naturale? Pochi anni dopo, sarebbe seguito il libro J}origine
dell' uomo? In quelle opere, Darwin sosteneva che la vita si fosse
evoluta nel corso di milioni e anche di miliardi di anni, a partire
da una singola cellula. Cosicché tutta la vita era connessa: nessuna
, specie esisteva in forma permanente, bensì era sempre in divenire;
l'umanità era sorta dalla famiglia dei primati e il racconto della
creazione della Genesi non era corretto né dal punto di vista biologico
né da quello storico. Iniziava a imporsi nel sapere umano
il fatto che non eravamo stati creati, in nessun senso, a immagine
di Dio, bensì che Dio era stato creato a immagine dell'umanità. E
divenne anche sempre più evidente che gli esseri umani non erano
poco meno degli angeli, come suggeriva il libro dei Salmi (Sal
8), ma, di fatto, poco più delle scimmie. Tutto questo conduceva a
conclusioni che destabilizzavano e facevano paura, ma la loro verità
sarebbe stata ripetutamente confermata negli anni successivi
e oggi è completamente accettata, almeno nei circoli intellettuali.
Più tardi, ma sempre nel XIX secolo, il medico francese Louis
Pasteur scoprì i germi e con questa scoperta prese avvio la pratica
della moderna medicina. C'era stato un tempo in cui si credeva
che la malattia dipendesse da Dio. La si affrontava, pertanto, con
preghiere e sacrifici, al fine di spingere Dio a mettere fine a ciò che
si riteneva un castigo divino. Ma nella misura in cui si comprese
cos'erano i germi, i virus, le occlusioni coronariche, i tumori e le
diverse leucemie, il trattamento passò dalla preghiera e dal sacrificio agli
antibiotici, alla chirurgia, alla chemioterapia, alla radioterapia
e alle misure preventive associate alla dieta e all'esercizio
fisico. Una volta ancora, il Dio concepito come un essere esterno,
sovrannaturale, pronto a intervenire con i miracoli, veniva espulso
da un altro campo della vita umana e, in tale processo, la medicina
si secolarizzò sempre di più. E con sempre maggiore rapidità
il concetto teista di Dio veniva messo all'angolo nella coscienza
umana.
Al principio del XX secolo, il medico tedesco Sigmund Freud
iniziò a esplorare la mente umana con il suo studio sulla natura
dell'inconscio, sulle emozioni e sulle attività di quella che una
volta chiamavamo "anima". Con questo studio, Freud introdusse
nel pensiero occidentale una comprensione completamente nuova
della condizione umana. Molti dei simboli che un tempo costituivano
il nucleo del racconto cristiano apparivano ora assai
diversi se analizzati nella prospettiva freudiana. li "Dio Padre"
del cielo era una mera proiezione dell' autorità paterna umana? li
potere della colpa, su cui si era basata una parte così importante
della vita cristiana, era qualcosa di più di una forma di controllo
del comportamento umano? Questa potente forza della colpa
si era proiettata anche nell' altra vita, vita di eterna beatitudine o
di eterni tormenti, ma ora, in modo piuttosto repentino, sembrava
derivare non dalla rivelazione divina ma da disordini psichici.
Dio, concepito come giudice, cominciò a essere considerato come
uno dei modi in cui gli esseri umani affrontano la propria mancanza
di autostima e di benessere mentale. li timore di Dio, che
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costituiva buona parte del cristianesimo, con le sue immagini del
cielo e dell'inferno, iniziò a venire meno. La ritirata di Dio verso
l'irrilevanza a causa delle nuove conoscenze era quasi completa.
Negli ultimi anni del XX secolo, il fisico tedesco Albert Einstein,
che passò buona parte della sua vita adulta all'università di
Princeton, in New Jersey, cominciò a studiare quella che si sarebbe
chiamata "relatività". Si scoprì che il tempo e lo spazio non
erano infiniti, ma finiti, e relativi sempre l'uno all'altro. Considerando
che la vita umana si svolge nello spazio e nel tempo, essa
si sviluppa anche in mezzo alla relatività. Tutto ciò che facciamo
e diciamo, lo facciamo e lo diciamo in mezzo alla relatività dello
spazio e del tempo. Ciò significa che non c'è nessuna verità assoluta.
Anche se ci fosse una verità assoluta, non potrebbe essere
pensata né espressa nel quadro dell' esperienza umana.
Grazie a questa intuizione, qualsiasi pretesa religiosa di oggettività
è venuta meno. Non c'è qualcosa come "la vera religione" o "la
vera Chiesa". Non c'è qualcosa come un papa infallibile o una Bibbia
inerrante. Non c'è qualcosa come un credo eterno o una dottrina
particolare che possa definirsi vera per tutti i tempi. La vita umana
è vissuta, piuttosto, in un mare di relatività. La vita è un viaggio
senza fine in ciò che in definitiva è reale, ma nessuno che sia legato
al tempo può conoscere e abbracciare pienamente questa realtà. E
, così la Chiesa cristiana non potrà mai offrire a nessuno la sicurezza
delle certezze. Nessuna istituzione umana, inclusa la Chiesa, possiede
la verità eterna, né può possederla. Gli esseri umani e le loro istituzioni
possono solo, per dirla con le parole di Paolo, vedere «come
in uno specchio, in maniera confusa» (LCor 13,12).
Questa cronaca dell' articolazione della conoscenza umana dal
XVI secolo a oggi, così breve e pertanto imperfetta, ci rende almeno
coscienti del fatto che la maniera in cui gli esseri umani
hanno pensato a Dio nel passato è stata stravolta nei suoi fondamenti.
E, tuttavia, nelle liturgie di tutte le Chiese cristiane continuiamo
a usare concetti del passato come modello su cui disegnare
il culto. Anche se, intellettualmente, tali concetti sono stati già
rifiutati. Così, diciamo ancora «Padre Nostro che sei nei cieli».
Una preghiera che si rivolge a un Dio concepito come essere dal
potere soprannaturale, che abita nell'alto dei cieli di un universo
Disposto su tre livelli da cui crediamo ancora, in qualche modo,
che controlli il nostro mondo. A questo Dio chiediamo ancora
«il nostro pane quotidiano», la venuta del suo regno sulla terra,
il perdono e la protezione. Ci avviciniamo ancora a questo Dio,
concepito come giudice, in ginocchio, supplicando misericordia,
chiedendo favori e cercando guarigione. Quando una tragedia ci
colpisce, ancora ci chiediamo perché, e ancora ci domandiamo se
tale tragedia sia un riflesso della volontà di Dio di punir ci per i
nostri peccati. «Che ho fatto per meritare questo?», ci chiediamo.
Definiamo "teismo" questo modo d'intendere Dio. Diciamo
che coloro che non credono in questo Dio teista devono essere
"a-teisti".Il problema, tuttavia, non è forse la definizione teistica
Di Dio più che la realtà di Dio? Il teismo come modo d'intendere
Dio è ora una vittima dell'espansione della nostra conoscenza. Un
concetto che non ha più senso nel nostro mondo. Non c'è una divinità soprannaturale
nell' alto dei cieli in attesa di venire in nostro
aiuto. Lo spazio è senza confini e noi, gli esseri umani, abbiamo
accettato la sua "infinitezza". Questo linguaggio, pertanto, è privo
di senso. Ebbene, ciò significa che Dio non abbia senso? Questa
è la questione più importante che il cristianesimo deve affrontare
oggi. Possiamo ridefinire ciò che intendiamo per Dio? Possiamo
cogliere questo significato in un'altra maniera? Possiamo rinunciare
alle nostre definizioni teistiche di Dio senza dover negare
al tempo stesso la realtà di Dio? Credo che lo possiamo e so che
dobbiamo provarci. Se il teismo muore, morirà Dio? Se il cristianesimo,
come religione, deve sopravvivere, deve sviluppare una
comprensione del divino che abbia senso nel XXI secolo. Questa
è diventata la nostra massima priorità.
Fu un filosofo greco del VI secolo a.c., di nome Senofane, a
osservare che «se i cavalli avessero divinità, queste assomiglierebbero
a cavalli»." Il fatto che qualsiasi linguaggio sia un linguaggio
umano significa che tutte le divinità che gli umani hanno adora-
to nel corso della storia tendono ad assomigliare molto agli stessi
esseri umani. Sì, abbiamo eliminato dall'idea di Dio le limitazioni
umane, ma i tratti umani permangono. Per questo la maggior parte
delle idee umane su Dio si esprime come negazione. La condizione
umana è finita, cosicché Dio deve essere infinito, o, diciamo,
"non finito". Gli esseri umani sono vincolati a un luogo determinato;
Dio non deve avere questa pastoia, cosicché lo si definisce
"onnipresente". Gli esseri umani hanno una conoscenza limitata;
Dio, per definizione, non deve avere questo limite, cosicché diciamo
che è onnisciente. La condizione umana è mortale; Dio deve
oltrepassare tale limitazione, cosicché diciamo che è immortale.
Gli esseri umani sono limitati nel loro potere; Dio non deve avere
tale restrizione, cosicché diciamo che è onnipotente. Potremmo
proseguire con ripetuti esempi, ma il risultato è sempre lo stesso.
Tutti gli dei che gli esseri umani hanno concepito nella storia assomigliano
sempre agli umani, ma senza i loro limiti. Ricorriamo
ancora al linguaggio della liturgia: «Dio onnipotente ed eterno»,
diciamo nelle preghiere. Ciò che stiamo dicendo è: Dio, tu non sei
limitato nel potere o nel tempo. Questo Dio è anche quello che sa
tutto, che scruta i segreti del nostro cuore. Questa divinità onnisciente
è in definitiva poco più di una costruzione umana.
Se la comprensione teistica di Dio è morta, allora si pone la
questione se è Dio a essere morto o la definizione umana di Dio.
Possiamo trovare un modo di parlare di Dio con altri concetti,
con altre parole, o Dio è talmente identificato con il nostro linguaggio
teistico da morire nel momento in cui muore questo linguaggio?
È questo il nostro dilemma moderno.
La Bibbia ha definito l'idolatria come il culto a qualcosa che è
costruito da mani umane. Il teismo è una comprensione di Dio
sviluppata da menti umane. Ciò che vi è di più fondamentale e definitivo
può essere colto nei limiti delle mani o delle menti umane?
Non credo. Il teismo è una manifestazione dell'idolatria umana.
Pertanto, respingiamo il teismo come una definizione creata da
noi, gli umani, e ci proponiamo di cambiare strada, verso la realtà
di Dio. Un passo molto più rivoluzionario di quanto la maggioranza
di noi possa immaginare, ma questo è il mondo nel quale il
cristianesimo deve imparare a vivere.
Tesi 2
Dal momento che Dio non può essere concepito in termini
teistici, non ha senso cercare d'intendere Gesù come "l'incarnazione
di una divinità teistica". I concetti tradizionali della cristologia
sono, pertanto, finiti in bancarotta.
Il cristianesimo è nato da un' esperienza di Dio associata alla
Vita di un ebreo del I secolo chiamato Gesù di Nazareth. Quali
Siano state le dimensioni precise di quella esperienza è difficile da
dire. I vangeli sono stati scritti tra 40 e 70 anni dopo la condanna
a morte di quest'uomo, cosicché non sappiamo come articolarono
realmente tale esperienza quelli che furono i suoi primi discepoli
nella prima generazione della storia cristiana. La maggior parte
di questi era morta prima che si scrivessero i vangeli. Per quanto
possiamo sapere, i primi discepoli erano convinti che tutto ciò che
avevano sempre pensato su Dio lo avevano sentito presente nella
vita di Gesù. Questo è stato il nucleo del messaggio ed è così che è
iniziato il cristianesimo. Pare che al principio i seguaci di Gesù si
limitassero a proclamare il nucleo della propria esperienza: «Dio
era in Cristo». Questo è tutto ciò che l'apostolo Paolo dice all'inizio della
sua vita cristiana (2Cor 5,19). Si accontentava semplicemente di
proclamare la sua esperienza, non aveva necessità di
spiegarla. Credeva di aver visto in Gesù, in qualche modo, la presenza della
santità. Così, scrivendo ai corinzi, intorno all'anno 54,
disse semplicemente: «Dio era in Cristo». Dopo, tuttavia, intorno
all'anno 56 o 58, quando scriveva ai romani (una comunità di cristiani in
cui non era stato e per la quale era uno sconosciuto), Paolo sentì
la necessità di spiegare ciò che intendeva quando affermava di
avere incontrato Dio nella vita di Gesù. Così, nella Lettera ai
Romani, suggerì che nella risurrezione Dio avesse elevato
l'umano Gesù fino a renderlo Dio (Rm 1,1-4). Secondo gli schemi
successivi, si trattava di una strana spiegazione. Con il tempo, sarebbe
diventata un' eresia, l'adozionismo, ma fin qui era arrivato
il pensiero sulla natura divina di Gesù nella metà e alla fine degli
anni cinquanta del I secolo.
Il problema era quello già indicato. La mente umana poteva
concepire Dio solo in termini teistici. Il teismo è una concezione
cui si giunge magnificando le qualità umane. Dio era un essere
esterno con potere soprannaturale. Se questa era la definizione vigente
di Dio, allora la questione era: com' era entrato questo Dio
esterno nella vita di Gesù perché le persone sperimentassero in
essa la sua presenza? Questa era la domanda cui sentivano di dover
rispondere e le risposte, nella misura in cui venivano svilup-'
pate, cominciarono, nel corso degli anni, a configurare il cristianesimo
in modi nuovi.
Con il Vangelo di Marco, il primo a essere scritto, intorno
all'anno 72, venne introdotta nelle menti dei seguaci di Gesù una
nuova spiegazione del legame tra lui e Dio. Nel primo capitolo,
Gesù, adulto e pienamente umano, è condotto al fiume Giordano
perché lo battezzi un uomo chiamato Giovanni Battista. Nel suo
racconto del battesimo, Marco dice che i cieli - il regno di Dio -
si aprirono. Si concepiva all'epoca l'universo come una superficie
coperta da una cupola gigantesca. Il cielo era il tetto che separava
il regno di Dio da quello degli umani; il tetto della terra era il
suolo del cielo. Così, apparve nel tetto un buco e il Dio che viveva
lassù semplicemente effuse lo Spirito Santo sull'umano Gesù.
Questo è il significato del battesimo di Gesù, per come lo registra
Marco. Non era uno spirito di passaggio, ma sarebbe dovuto rimanere
in lui per sempre, uno spirito che, in ultima istanza, ridefiniva
la sua umanità. Marco dice che, in quel momento, la voce
di Dio proclamò dal cielo che Gesù era suo figlio, il figlio in cui
si era compiaciuto. Lo studio della Scrittura rivela che le parole
pronunciate da Dio in quest' occasione, nel Vangelo di Marco,
non erano originali. Si trovavano nel Salterio (Sal 2,7) e nel libro
di Isaia (Is 42,1). Tuttavia, ora significavano che lo spirito era stato
inviato per abitare in Gesù e veramente, nell'esperienza dei discepoli,
questo spirito lo aveva talmente segnato da renderlo diverso.
Si cominciò a pensare a lui come a un essere umano pieno di Dio.
A questo stadio si trovava la comprensione cristiana di Gesù negli
anni settanta del I secolo.
Questo processo è andato avanti nella nona e nella decima decade,
quando sono stati scritti i vangeli che chiamiamo di Matteo
(intorno all'anno 85) e di Luca (89-93). In questi due vangeli
si pensa a Gesù non solo come a un essere umano permeato da
Dio, ma come a una presenza di Dio nella sua forma umana. Il
momento in cui si dice che il Dio teistico si è unito a Gesù è andato
spostandosi all'indietro: dalla risurrezione, che è quando Dio
adotta Gesù secondo Paolo, al battesimo, che è quando Dio entra
in Gesù secondo Marco, fino ad arrivare al concepimento, che è
quando Dio agisce come fattore maschile che dà la vita a Gesù
secondo Matteo e Luca. È stato allora che la tradizione della nascita
verginale si è incorporata al racconto cristiano. Un'aggiunta
della metà o della fine della nona decade a questo racconto di
fede che si stava sviluppando. Nel pensiero cristiano, si è passati
a pensare allo Spirito Santo come al padre biologico di Gesù. La
sua umanità era ormai permanentemente compromessa. Non si
può avere per padre lo Spirito Santo e continuare a essere pienamente
umani!
Per quanto importante fosse tale cambiamento, non sarebbe
stato tuttavia il punto d'arrivo di questo sviluppo cristologico.
Quando si completò il quarto Vangelo, verso la fine degli anni
novanta dell'era cristiana (95-100), si disse che Gesù era già parte
di Dio; era il Verbo di Dio che era con Dio dal principio della
creazione. La Parola di Dio «si fece carne» nella persona di Gesù.
Giovanni stava affermando che il Dio teista che è nell' alto dei cieli
aveva assunto forma umana in Gesù e che in lui Dio abitava tra
noi. Gesù era ormai completamente inteso come l'incarnazione
del Dio che abita nell' alto dei cieli. Si erano così poste le basi tanto
della dottrina dell'Incarnazione quanto, di quella della Santissima
Trinità. Il Credo di Nicea e le dottrine e i dogmi successivi
avrebbero preteso di definire Dio. Successivamente, questa interpretazione
ortodossa sarebbe stata imposta bruciando sul rogo i
dissenzienti.
Tuttavia, se l'idea di un Dio nell' alto dei cieli è finita in bancarotta,
come penso sia avvenuto, lo è ugualmente, di conseguenza,
l'idea che questo Dio teistico si sia incarnato nel Gesù umano. Ciò
significa che la principale spiegazione di Gesù nel Credo, sviluppata
nel corso dei secoli, non può più essere applicata oggi. Ciò
significa che l'esperienza che tale spiegazione intendeva esprimere
non è reale né valida? Non credo, ma significa, questo sì, che
bisogna cercare nuove parole che la spieghino. Le antiche non
funzionano più. Ogni spiegazione è una creazione umana. Come
tale, ogni spiegazione è legata al tempo e deformata dal tempo.
Pertanto, nessuna spiegazione è eterna. Tuttavia, un'esperienza
che non si spiega non può passare dagli uni agli altri. Ma un' esperienza
che si trasmette non è più la stessa originale. Le spiegazioni
rimandano a una verità atemporale, ma non possono catturarla.
Allora, qual è questa verità eterna, atemporale, riguardo a
Gesù, cui rimandano - in maniera tanto imperfetta - le nostre
venerate parole teologiche? Cosa c'è stato intorno a Gesù da far
sì che la gente credesse di aver incontrato Dio in lui? Questo è
quanto la ricerca della verità ci chiama oggi a scoprire. La fede
in Gesù come incarnazione di Dio, o come la seconda persona
della Trinità, è nata da un'esperienza umana. Qual è stata questa
esperienza? Non sono state le storie su un potere miracoloso di
Gesù a riunire la gente intorno a lui. Questo è venuto molto dopo
1'affermazione che «Dio era in Cristo». La convinzione che Gesù
era l'incarnazione di Dio non nasce dai racconti del suo potere
miracoloso. Non possiamo trovare alcuna prova che associ Gesù
ai miracoli fino all'ottava decade dell' era cristiana. L'affermazione
che in Gesù era presente Dio precede di vari decenni quella sulla
sua condizione di operatore di miracoli. L'esperienza di un incontro
con Dio in lui non è neppure legata all'affermazione relativa
a una nascita verginale miracolosa. Tale idea è stata aggiunta al
racconto cristiano nella nona decade. E nemmeno è vincolata a
un'interpretazione della risurrezione come il "risuscitare" un corpo
morto per restituirlo alla vita di questo mondo. Un'idea che
Luca in particolare ha portato al cristianesimo nella decima decade.
L'esperienza di un incontro con Dio in Gesù precede tutti
questi aspetti dello sviluppo della tradizione cristiana. L'esperienza
di trovare Dio in Gesù dev'essere stato qualcosa di originale e
di trasformante. Permettetemi di sostenere come tale esperienza
abbia a che vedere con le qualità dell'umanità di Gesù, con la totalità
della sua vita, con il potere del suo amore di rompere le catene
e con la sua capacità di essere se stesso, in ogni circostanza, nel
modo più profondo e più autentico. Forse le persone hanno visto
e sperimentato nella sua vita "la fonte della Vita", nel suo amore
"la fonte dell'Amore" e nel suo essere "il fondamento dell'Essere".
Forse hanno sentito in lui e da lui la chiamata a vivere in pienezza,
ad amare generosamente e a essere tutto ciò che ciascuno
poteva essere. Forse con questa esperienza sono arrivati a capire
che si erano incontrati con la santità nelle dimensioni dell'umano.
Forse il problema delle spiegazioni teologiche non è nell' esperienza
che hanno cercato di trasmettere, ma nei concetti che hanno
determinato le parole usate nelle spiegazioni di questa nuova
realtà. Forse l'esperienza è reale e, una volta respinte le spiegazioni antiquate
e irrilevanti, la realtà di tale esperienza può essere
proposta ancora una volta. Che realtà è stata quella che ha portato
i seguaci di Gesù a sviluppare dottrine come quelle dell'Incarnazione
e della Trinità? Come descrivere oggi tale realtà?
Possiamo ancora pensare a Gesù, oggi, come essere divino senza
intenderlo come incarnazione di una divinità soprannaturale
che vive oltre il cielo? Quando è stata formulata la dottrina
dell'Incarnazione, la gente pensava in termini dualistici. Il divino
e l'umano si opponevano. Ma supponiamo che il divino e l'umano
non siano due regni separati, ma una sola realtà continua. Forse
il cammino verso la pienezza e anche verso il divino consiste nel
farsi profondamente e pienamente umani. Forse l'impulso biologico verso
la sopravvivenza non è il valore supremo per gli umani;
forse questo valore supremo consiste piuttosto nel trascendere la
necessità di sopravvivere e nell' essere capaci di donare se stessi
nell'amore per gli altri. Forse quando oltrepasseremo i limiti della nostra
sicurezza tribale, di genere, di orientamento sessuale, di
razza, di credo o di status, sperimenteremo un'umanità non legata
all'istinto di sopravvivenza. Forse s'incontra Dio nella libertà
di permettere e, in realtà, di accettare, la responsabilità di aiutare
gli altri a essere ciò che ciascuno è stato creato per essere, senza
imporre loro le nostre idee. Forse è questo che Paolo cercava di
dire quando scrisse che «Dio era in Cristo», riconciliando il mondo
con Dio e con l'unità di Dio. Interpretata letteralmente, l'Incarnazione
non ha senso in un mondo il cui pensiero non è più
dualistico. Ma è infinitamente significativa quando la si vede non )' come una spiegazione ma come un esperienza.
Possiamo recuperare questo concetto cristiano per il XXI seco-
lo? Penso di sì. Se il cristianesimo deve sopravvivere, penso che
dobbiamo farlo. E il cristianesimo potrebbe risultare molto più
profondo di quanto avevamo immaginato.
Tesi 3
Il racconto biblico di una creazione perfetta e compiuta dalla
quale noi, gli esseri umani, "siamo caduti" con il peccato origi-
nale è
mitologia pre-darwiniana e non senso post-darwiniano.
Quando venne scritto il famoso racconto biblico della creazione
in sei giorni (Gen 1,1-2,3), non esistevano documenti geologici. I
popoli dell'antichità ricorrevano ai miti della creazione per spiega-
re la loro comprensione delle origini del mondo. L'esperienza del
popolo ebraico era che il mondo fosse buono e compiuto, e così
venne raccontata la storia di come Dio avesse creato tutto dal nulla.
Considerando che Dio era il creatore del mondo, il mondo doveva
essere buono. Il mito ebraico dice che Dio vide tutto ciò che ave-
va fatto e che era molto buono e che, quando il sesto giorno Dio
ebbe terminato il processo della creazione, si riposò dal suo lavoro
divino e decretò che il settimo giorno fosse per sempre un giorno
di riposo per tutta la creazione. Dunque la narrazione biblica, così
com'è attualmente costruita, ha inizio con un'interpretazione del-
la creazione tale da suggerire che il mondo venne creato per essere
perfetto e completo. Questa narrazione, in particolare, venne scrit-
ta in un' epoca tarda della storia ebraica, probabilmente durante l'e-
silio di Babilonia, alla fine del VI o all'inizio del V secolo a.c.
Tuttavia, molto prima che si scrivesse questo racconto della
creazione in sei giorni, un altro mito ebraico si propose di dar
conto della realtà del male nel mondo. Lo conosciamo come la
storia di Adamo ed Eva, del serpente e del Giardino dell'Eden
(Gen 2,4-3,23), scritta circa 400 anni prima del racconto della
creazione in sei giorni.
Durante l'esilio in Babilonia, grazie all' efficace lavoro editoriale
di un gruppo di persone che chiamiamo "scrittori sacerdotali", le
quattro tradizioni principali che ricordavano la storia ebraica ven-
nero intrecciate. In questa edizione rivista, la narrazione comin-
ciava con la perfezione della creazione compiuta in sei giorni ed
era immediatamente seguita dal racconto noto come "la caduta".
Adamo, Eva e la loro espulsione dal Giardino dell'Eden per ordi-
ne di Dio erano parte di questa narrazione. Tuttavia, dobbiamo ri-
conoscere che, in origine, queste due storie non erano affatto col-
legate. Non vennero scritte per formare una narrazione continua.
Dopo il Concilio di Nicea nel 325, e con il riconoscimento ufficiale
della legalità del cristianesimo nell'Impero Romano, molti
capi cristiani, ma in particolare un vescovo di nome Agostino, co-
minciarono a dare forma a ciò che con il tempo sarebbe diventato
il mito cristiano delle origini. Costruirono questo mito sulla base
del presupposto che i capitoli 1 e 2 della Genesi costituivano un'u-
nica storia, continua e vera. Questo mito delle origini includeva
cinque grandi principi. Primo, si affermavano la bontà e la perfe-
zione originali della creazione. Secondo, veniva ricondotta all'atto
umano di disobbedienza la caduta dall'opera perfetta di Dio, che
ha finito per prendere il nome di "peccato originale". Questa "ca-
duta" aveva stravolto la perfezione di Dio in tutti e in tutto. Terzo,
si narrava la storia di Gesù in termini di riscatto offerto da Dio per
salvare dalla caduta un'umanità peccatrice e un mondo peccami-
noso. Il mito suggeriva che Gesù avesse realizzato tale proposito
pagando il "prezzo" reclamato da Dio e assumendo il castigo, ca-
stigo che gli esseri umani meritavano' in quanto peccatori. Questo
atto di redenzione era stato compiuto mediante ciò che è stato
chiamato "il sacrificio della croce". Da questa prospettiva teologi-
ca del IV secolo sono derivate le parole «Gesù è morto per i miei
peccati», che in un tempo relativamente breve sono diventate un
autentico "mantra" cristiano. Questa interpretazione di Dio e di
Gesù è giunta a plasmarsi nei nostri inni, nelle nostre preghiere,
nelle nostre liturgie e nelle nostre omelie. Il messaggio era: «Gesù
ci ha salvato dall' abisso che il peccato aveva creato». Questo "man-
tra" implicava che la grandezza di Dio venisse riconosciuta nel fat-
to che «abbassò se stesso per salvare qualcuno malvagio e indegno
come me». La grazia di Dio diventava oggetto di ammirazione per-
ché «ha salvato un infelice come me». «L'antica e aspra croce» era
il luogo in cui Gesù aveva versato il suo sangue per «un mondo di
peccatori perduti». Man mano che questa interpretazione diventa-
va dominante nella storia cristiana, la liturgia evidenziava la pecca-
minosità della condizione umana. I cristiani si abituarono ad avvi-
cinarsi a Dio in ginocchio, come avrebbero fatto gli schiavi dinanzi
al padrone. Ci venne insegnato a pregare chiedendo continuamen-
te misericordia, a chiamare noi stessi «miserabili peccatori», esseri
nei quali «non c'è salvezza» né integrità, «indegni di raccogliere le
briciole» della mensa divina. Il nostro peccato era presentato come
la causa e come la ragione della sofferenza di Gesù. Così, la colpa
diventava moneta di scambio nel cristianesimo. La salvezza veniva
dal riconoscere che la sofferenza e la morte di Gesù per noi si era-
no prodotte perché Dio, nella persona di suo figlio, aveva assunto
il castigo meritato da noi esseri umani.
Si stabilì il battesimo come forma sacramentale con cui lavare
il "peccato originale" di chi è appena nato. Dei bambini non bat-
tezzati che morivano "nel peccato di Adamo" si diceva che fosse-
ro condannati a vivere eternamente distanti da Dio. L'eucarestia
cristiana era il cibo che permetteva di assaporare in anticipo il
regno di Dio. La fede nella risurrezione significava che Gesù ave-
va vinto la morte dando compimento al castigo reclamato da Dio
per il peccato di Adamo che aveva stravolto il mondo perfetto di
Dio. Di modo che Gesù, morendo sulla croce, aveva pagato i no-
stri debiti, si era fatto carico del castigo che noi meritavamo e così
aveva ottenuto per noi la salvezza eterna. Per questo, nello svilup-
po della tradizione cristiana, i principali titoli attribuiti a Gesù di-
vennero "salvatore", "redentore" o "liberatore". Infine, ci venne
insegnato che con il sacrificio della vita di Gesù noi esseri umani
siamo stati ristabiliti nella nostra perfezione originaria e che la vita
eterna è il culmine della restaurazione nuovamente ottenuta.
Questo quadro teologico è diventato così forte nella teologia
cristiana da eliminare tutte le altre possibilità. Si è impadronito di
ogni aspetto del messaggio cristiano. Ha reso necessaria l'''Incar-
nazione". Ha puntellato la dottrina della Santissima Trinità. Ha
costituito la visione che sta dietro la dottrina dell' espiazione. Ha
creato nel cristianesimo il feticismo centrato sul "sangue salvifi-
co" di Gesù. Ha configurato completamente la liturgia.
Ha prodotto anche cose terribili che per secoli non sono state
colte. Ha trasformato Dio in un mostro che non sa perdonare.
Lo ha dipinto come qualcuno che richiede un sacrificio umano e
un'offerta di sangue prima di offrire il perdono. Ha fatto sì che
venisse raccontata la storia di un Dio Padre che punisce con la
morte suo Figlio per soddisfare la sua necessità di un risarcimen-
to. Senza rendersene conto, questa concezione ha trasformato
Dio Padre nel supremo abusatore di minori!
In secondo luogo, questa teologia ha reso Gesù una vittima
cronica cui non si sarebbe mai consentito di sfuggire alla croce,
in quanto i ripetuti peccati degli esseri umani esigono continua-
mente la sua sofferenza e la sua morte. Abbiamo presentato come
principale icona cristiana l'immagine di un Gesù che eternamente
muore sulla croce.
In terzo luogo, questa teologia ci ha oppresso con uno schiac-
ciante e anche malato senso di colpa. Ci ha fatto diventare gli
assassini di Cristo, come proclamava uno dei nostri inni: «Sono
stato io, Signore Gesù, sono stato io. lo ti ho rinnegato tre volte
e tre volte ti ho crocifisso».' Si può immaginare un messaggio più
colpevolizzante?
Un'analisi di questi temi, arrivati a costituire ciò che abbiamo
chiamato "teologia dell' espiazione", ci convincerà rapidamente
del fatto che questo modo d'intendere Gesù e la storia cristiana
sono distruttivi e contrari alla vita. Questa teologia assume un'an-
tropologia screditata e anacronistica che, quando viene esposta,
appare immediatamente tanto nulla quanto vuota.
La teologia dell'espiazione assume una teoria sulle origini del-
la vita che, nel mondo astro fisico o biologico, oggi nessuno può
accettare. È dimostrabile che la premessa da cui parte è falsa. Da
quando Charles Darwin pubblicò la sua opera, [; origine delle spe-
cie, a metà del XIX secolo, sappiamo che non vi è mai stata una
perfezione originaria. La vita umana è, piuttosto, il prodotto di un
viaggio biologico partito da una singola cellula comparsa 3.800
milioni di anni fa. La vita è passata per molte tappe dalle cellule
indipendenti alle unioni di cellule, da queste unioni a un'organiz-
zazione di maggiore complessità, e da qui alla divisione tra la vita
vegetale e quella animale (per nominare solo alcune tappe). Tutto
questo è avvenuto nel corso di centinaia di milioni di anni. Circa
600 milioni di anni fa, la vita nelle sue forme sia animali che ve-
getali, lasciò il mare e iniziò a stabilirsi sulle rive dei fiumi e sugli
estuari, dove rimase in attesa fino al momento in cui il pianeta
non diventò compiutamente adatto alla vita. Allora, queste forme
di vita uscirono dall' acqua verso la terraferma, dove si adattarono
al nuovo ambiente e cominciarono a interagire, producendo una
varietà di nuove forme. Da 180 fino a circa 65 milioni di anni fa, i
rettili furono i signori del pianeta. I rettili dominanti divennero i
dinosauri, i quali si stabilirono al vertice della catena alimentare.
Sulla Terra, il dinosauro non aveva eguali e, pertanto, non aveva
nemici. Tuttavia, un qualche tipo di disastro naturale colpì il pia-
neta circa 65 milioni di anni fa e alterò radicalmente il clima, mo-
dificando, in questo processo, tutte le forme di vita. La maggior
parte degli scienziati afferma che questo disastro naturale è stato
il risultato della collisione di un grande meteorite con la Terra. In
ogni modo, provocò un cambiamento nel clima che avrebbe con-
dotto all' estinzione dei dinosauri e aperto la porta ai mammiferi,
dando il via alla loro scalata verso il predominio. Da questi ani-
mali dal sangue caldo e vivipari emerse infine la linea dei primati,
creature simili agli umani. E questo avvenne circa 4 o 5 milioni
di anni fa. In questo tempo, il cervello di tali creature si ingrandì,
la mandibola si ritrasse, scese la laringe, si sviluppò la capacità di
parlare e, infine, queste creature attraversarono la grande linea di-
visoria, passando dalla semplice coscienza all' autocoscienza. Ora,
questa creatura era cosciente della propria separazione rispetto
alla natura. E divenne anche consapevole della propria mortalità.
Iniziò a pensare anticipatamente alla propria morte, maturando
una sorta d'inquietudine esistenziale cronica che nessun animale
aveva conosciuto prima. Le inquietudini dell’autocoscienza erano
così forti da indurre questa creatura a sviluppare meccanismi di
difesa. La religione fu uno di questi. L'oggetto e l'epicentro del
pensiero religioso era una divinità simile agli umani che aveva ca-
pacità soprannaturali; poteva fare tutto ciò che queste creature
auto coscienti non potevano fare, compresa la possibilità di sfuggi-
re alla morte. Abbiamo già chiarito come originariamente si fosse
concepito Dio in base all' analogia con l'essere umano, ma senza
tutte le limitazioni di quest'ultimo. Era questo Dio antropomorfi-
co a reggere l'universo, di modo che gli inquieti esseri umani po-
tevano rivolgersi al suo potere soprannaturale in cerca di aiuto. È
questa, in breve, la storia delle origini della vita sul pianeta.
Tuttavia, nella misura in cui questa creatura umana ha acquisi-
to una maggiore conoscenza rispetto alle origini dell'universo, è
diventato chiaro che non c'è mai stata una perfezione originaria
e che la creazione è un processo continuo, mai compiuto. Ciò si-
gnifica anche che nessuna forma di vita sulla terra è fissa e che,
pertanto, tutte sono in costante cambiamento. Nulla di ciò che
ha a che vedere con la vita è statico. Non c'è mai stato nulla di
statico riguardo alla vita e mai ci sarà. Notiamo, allo stesso modo,
che non c'è mai stato un atto creatore originale, ma piuttosto un
processo continuo, sempre in sviluppo. Vediamo ora ciò che tali
scoperte significano per la nostra comprensione del cristianesimo.
Se non c'è stata una perfezione originaria, non ha potuto esser-
ci una caduta da questa nel peccato. Ciò significa che l'idea del
"peccato originale" è semplicemente sbagliata. Se l'idea del pec-
cato originale non è una descrizione esatta delle origini umane,
allora dev'essere scartata. E ci sono altre cose che iniziano a crol-
lare e a essere rifiutate. Se non c'è stato peccato originale, neppu-
re c'era necessità di qualcuno che ci salvasse da questo peccato o
che ci riscattasse dalla caduta. Non si può essere risollevati da una
caduta che non è mai successa, né si può essere restituiti a una
condizione che non si è mai posseduta. Improvvisamente, tutto il
quadro che per secoli aveva con figurato le basi della storia cristia-
na è crollato. Non è assolutamente un modo adeguato di pensare
alle nostre origini. Allora, questa storia della salvezza smette im-
mediatamente di essere traducibile in qualcosa che possa risulta-
re minimamente credibile alle nostre menti del XXI secolo. Non
può, pertanto, essere abbracciata dalla devozione del nostro cuo-
re, in quanto il cuore non potrà mai essere condotto ad adorare
ciò che la mente non accetta come reale.
Di conseguenza, non possiamo più pretendere di continuare a
presentare con questi concetti la storia di Cristo nel nostro mon-
do contemporaneo. Semplicemente, non funziona. Allora, per
molti, la domanda è: possiamo continuare a raccontare in qual-
che modo la storia di Cristo? Possiamo distinguere tra la realtà di
Cristo e il quadro interpretativo del passato nel quale questa real-
tà è stata colta, e anche così trovare in lui qualcosa che parla alla
nostra umanità e la rende migliore? Possiamo rompere le barriere
che ci separano gli uni dagli altri e trovare in lui un qualche senso
di unità? Possiamo immergerci, attraverso la figura di Gesù, nelle
fonti della vita, aprirci a un amore trasformante e, attraverso di
questo, trovare il coraggio di essere ciò che possiamo essere?
Le vecchie parole non ci condurranno mai a queste mete. Mal-
grado ciò, ci saranno sempre alcuni che si rifiuteranno di abban-
donare le proprie sicurezze; quelli che agiscono come se doves-
simo aggrapparci per sempre alle vecchie parole. Agiscono così,
principalmente, perché nessuno ha mai suggerito loro che esiste
un altro modo di raccontare la storia di Cristo. Temono che, se
bisogna abbandonare le vecchie parole che hanno trasmesso que-
sta storia per tanto tempo, la storia stessa si perderà. Tuttavia, la
Chiesa di domani non può fermarsi dinanzi all' ostacolo rappre-
sentato da coloro che non possono assumere la nuova realtà. La
ricerca di nuove parole con cui raccontare la nostra storia deve
diventare la missione principale della Chiesa cristiana nel nostro
tempo. Se non accettiamo questi cambiamenti, non ci sarà spe-
ranza di futuro per il cristianesimo. Si comprenda, per favore, che
la morte può sopravvenire anche nel caso si abbandonino que-
ste parole dell'antichità. Non possiamo essere sicuri che i cristia-
ni moderni possano operare la necessaria transizione. Tuttavia,
quello che di certo sappiamo è che la morte sopraggiungerà si-
curamente se non abbandoneremo le formule di ieri. Viviamo un
momento critico nella storia cristiana.Il nostro tempo esige guide
eroiche che probabilmente andranno incontro al rifiuto di coloro
che si considerano "i fedeli". La salvezza del cristianesimo merita
lo sforzo e il costo? Credo di sì, L'appello a una riforma radicale
è la sfida cui la nostra generazione deve rispondere. Comincerà
con una nuova comprensione di ciò che significa essere umani.
Non siamo peccatori caduti, siamo esseri umani incompleti. Non
abbiamo bisogno di essere salvati dal peccato, abbiamo bisogno
della forza per accogliere la vita in una forma nuova.
Tesi 4
La nascita verginale, intesa in senso biologico letterale, rende
impossibile la divinità di Cristo così com'è stata tradizionalmente
compresa.
Quando la nascita verginale venne incorporata alla tradizio-
ne nella nona decade dell'era cristiana, nel Vangelo di Matteo, la
comprensione del processo di riproduzione era alquanto primiti-
va. Nessuno aveva sentito neppure parlare della possibilità che la
donna avesse ovuli e che pertanto fosse, dal punto di vista geneti-
co, co-creatrice al pari del maschio nella nascita e nello sviluppo
di ogni nuova vita umana. La gente di quel tempo pensava piut-
tosto che la nuova vita fosse nello sperma del maschio e fosse lui,
semplicemente, a piantarla nella donna, allo stesso modo in cui il
contadino pianta il seme nel suolo della madre Terra. La donna,
come la madre Terra, serviva solo da ricettacolo o da incubatri-
ce per la crescita del bambino o del seme; non offriva alcun con-
tributo. Ciò significava che, nel mondo antico, ogni qualvolta si
voleva evidenziare la straordinarietà di una vita umana (cosa che
non si poteva spiegare senza suggerire una sua origine divina),
si aveva, nello sviluppo della spiegazione mitica, la necessità di
sostituire solo il maschio con una fonte divina. Poiché si pensa-
va che la donna non contribuisse in nulla alla nuova vita, poteva
diventare facilmente il ricettacolo del figlio di Dio, come sareb-
be avvenuto con qualunque bambino umano. Considerando tale
comprensione del processo riproduttivo, le storie di nascite mira-
colose e di parti verginali erano frequenti nei racconti di vite straor-
dinarie. Non sorprende, dunque, che in un tempo appartenente
all'antichità si concepisse una storia simile su una nascita miraco-
losa di Gesù, al fine di spiegare l'origine del suo potere straordi-
nario. Questo tipo di racconto, che non è esclusivo del cristiane-
simo, è entrato nella tradizione circa 55 anni dopo la crocifissione
di Gesù. È interessante notare che Paolo, che scrive tra gli anni
51 e 64 (tra 21 e 34 anni dopo la crocifissione), non sembra aver
sentito parlare della tradizione di una nascita verginale. Di fatto,
Paolo sembra avere assunto l'idea di una nascita del tutto comu-
ne di Gesù. Nella sua seconda lettera, rivolta ai Galati (scritta in-
torno all'anno 52), parla delle origini di Gesù descrivendole in un
modo in cui non c'è nulla di rilevante: sarebbe «nato da donna»,
come qualunque altro essere umano, e nato «sotto la legge», come
qualunque ebreo (Gal4,4). In questa stessa epistola, Paolo affer-
ma anche che Giacomo era «il fratello del Signore», riferendosi
chiaramente a un fratello di sangue di Gesù (GaI 1,19). Giacomo,
in realtà, aveva raggiunto una posizione influente nel movimento
cristiano proprio sulla base di questa sua relazione famigliare con
Gesù. Nella Lettera ai Romani, scritta tra gli anni 56 e 58, Paolo
aggiunge un'altra affermazione relativamente alle origini di Gesù
e, di nuovo, senza nessun riferimento a una nascita miracolosa.
Scrive che Gesù era «nato dalla stirpe di Davide secondo la car-
ne» e «costituito Figlio di Dio [. .. ] mediante la risurrezione dai
morti» (Rm 1,1-4). In tutto il corpus paolino non c'è nulla d'inu-
suale intorno alla nascita di Gesù. Non si menziona mai la nascita
verginale, perché ancora non si era sviluppata questa tradizione.
Quando Marco scrive il primo vangelo, intorno all'anno 72 (o
42 anni dopo la crocifissione), la tradizione non includeva anco-
ra una storia su una nascita miracolosa. Ancora non era apparso
questo tipo di narrazione.
In Marco, lo Spirito Santo si era unito a Gesù non nel concepi-
mento, ma nel battesimo al Giordano (Me 1,9-10). Bisogna sup-
porre che prima del battesimo Dio non fosse entrato in lui. Per
sottolineare la normalità della nascita di Gesù, Marco afferma an-
che (Mc 3,21ss.), in relazione alla madre di Gesù e ai suoi fratelli,
che essi credevano che Gesù fosse fuori di sé, cioè mentalmente
squilibrato (in un altro passaggio, Mc 6, vengono nominati i fra-
telli: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda). Preoccupati, questi
famigliari «lo mandarono a chiamare» (Mc 3,31ss). Difficilmen-
te sarebbe questo il comportamento di una donna cui un ange-
lo avesse annunciato che avrebbe portato nel suo seno il Messia.
Non si riceve un annuncio angelico prima della gravidanza per
concludere, una volta che il figlio sia cresciuto, che questo è uno
squilibrato! Senza dubbio Marco non era consapevole della tra-
dizione di una nascita soprannaturale di Gesù. Non aveva sentito
parlare di tale tradizione perché ancora non era cominciata.
La tradizione della nascita verginale entra nella storia cristiana
alla metà della nona decade, intorno all'anno 85 dell' era cristiana,
55 anni circa dopo la crocifissione e 85 o 90 'anni dopo la nascita
di Gesù (Mt 1,18-25).Il racconto della nascita verginale viene ri-
petuto da Luca, più o meno una decina d'anni dopo, ma in modo
molto diverso e persino incompatibile (Le 1,26-80). Dopo, e per
sorpresa di molti, il racconto della nascita miracolosa di Gesù
scompare completamente nel Vangelo di Giovanni, terminato in-
torno alla fine della decima decade, tra 65 e 70 anni dopo la ri-
surrezione. Giovanni non solo omette la tradizione della nascita
miracolosa, che quasi certamente conosceva, ma continua a par-
lare di Gesù, in due occasioni, semplicemente come del «figlio di
Giuseppe», una volta nel capitolo 1 (1,35) e l'altra nel capitolo 6
(6,42). li racconto della nascita verginale non è storico, non è bio-
logia, è mitologia, pensata per interpretare il potere di una vita.
La realtà è questo potere, non i processi riproduttivi.
Torniamo ora a ciò che sappiamo oggi sulla riproduzione uma-
na. Quando lo sperma dell'uomo fertilizza l'ovulo della donna,
il risultato è il mescolamento delle due fonti genetiche. Alla luce
della conoscenza attuale, se intendiamo letteralmente il racconto
della nascita verginale, in senso biologico e non mitologico, allora
Gesù non può essere né pienamente umano né pienamente divi-
no! Nondimeno, è questo che i grandi concili della Chiesa hanno
voluto sostanzialmente affermare: una nascita verginale in senso
letterale, intesa biologicamente, in cui lo Spirito Santo ha offerto
il seme maschile e la Vergine Maria l'ovulo femminile; un proces-
so che avrebbe dato luogo non a un essere pienamente umano e
pienamente divino, ma, piuttosto, a un essere metà divino e metà
umano. E questo non è l'Incarnazione!
Le conseguenze di questa nuova comprensione sono molto più
grandi di ciò che la maggioranza può immaginare. In primo luo-
go, uno non può essere pienamente umano se suo padre è lo Spi-
rito Santo. Sembra elementare! Secondo: la madre di Gesù, come
co-creatrice, avrebbe trasmesso inevitabilmente a Gesù gli effetti
della" caduta", essendo anche lei figlia di Adamo. Scomparirebbe
così l'idea che Gesù è nato "senza peccato". La scienza ha scoper-
to l'ovulo nei primi anni del XVIII secolo. Forse è per questo che
la Chiesa si è vista obbligata, più di un secolo dopo, a introdur-
re una nuova dottrina: quella dell'''Immacolata concezione della
Vergine"." La sua nascita doveva stare al di sopra della biologia
umana perché lei potesse portare in sé il Cristo bambino senza
trasmettere a lui che era "senza peccato" la corruzione della ca-
duta. Cosicché la nascita di Maria è stata il luogo in cui il peccato,
il "peccato originale", è stato fermato. Si è detto, pertanto, che il
suo concepimento era stato libero dal peccato, o "immacolato".
Se s'intende letteralmente la nascita verginale e la si unisce
all'attuale comprensione della riproduzione, il risultato è che si
potrebbe pensare a Gesù in base all'analogia con una sirena, una
creatura metà umana e metà altro, o come una delle figure della
mitologia greca con un corpo animale e una testa umana. Una
nascita verginale intesa letteralmente distruggerebbe, anche in
questo caso letteralmente, le affermazioni essenziali espresse nelle
dottrine dell'Incarnazione e della Trinità.
Allora, cosa significa il racconto della nascita miracolosa di
Gesù? Perché è stato sviluppato e applicato al suo caso? La ri-
sposta è chiara. Era la forma con cui i discepoli del I secolo pro-
clamavano che in Gesù avevano incontrato la presenza di Dio,
convalidando così quello che la loro esperienza faceva affermare
loro e cioè che la vita umana non avrebbe potuto produrre ciò che
loro credevano fosse la presenza di Dio che avevano incontrato in
Gesù di Nazareth.
Noi cristiani adoriamo il Dio rivelato nell'umanità di Gesù e
attraverso di essa. Il mito della nascita virginale non ci offrirà mai
questo. Pertanto, non va inteso letteralmente. Non ha a che vede-
re con la biologia. Noi cristiani dobbiamo smettere di fingere che
una volta sia stato qualcosa di più.
Tesi 5
Le storie di miracoli del Nuovo Testamento non possono più
essere interpretate, nel nostro mondo post-newtoniano, come
avvenimenti soprannaturali operati da una divinità incarnata.
Nella Bibbia, i miracoli non sono esclusivi di Gesù. Secondo le
Scritture ebraiche, Mosè opera miracoli, alcuni dei quali piuttosto
strani. In un racconto dell'Esodo, Mosè lancia al suolo il suo ba-
stone che si trasforma in serpente (Es 7,8-13). Alcuni consistono
nel fare uso di poteri divini, come nel caso delle piaghe d'Egitto
(Es 7,12). Anche Giosuè opera miracoli nelle Scritture ebraiche,
separando le ricche acque del fiume Giordano (Gs 3,1-10) e fer-
mando il sole nel suo movimento intorno alla Terra per avere più
ore di luce in maniera da consentire al suo esercito di sconfiggere
i nemici, gli ammoniti (Gs 10,21ss).
Successivamente, nella storia biblica, tanto Elia quanto Eliseo
operano miracoli. Entrambi esercitano il controllo sugli agenti at-
mosferici e accrescono la quantità di alimenti disponibili (IRe 17;
2Re 4,7). Anche i miracoli di guarigione appaiono in alcuni rac-
conti del ciclo di Elia e di Eliseo (2Re 5), come pure le storie di
risurrezione (2Re 17; 2Re 4,18ss).
Il terzo luogo delle Scritture ebraiche in cui si menzionano i
miracoli è Isaia. I miracoli sono tra i segnali che, secondo il pro-
feta, annunciano l'arrivo del Regno-di Dio. In quel giorno, dice,
«si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei
sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la
lingua del muto» (Is 35,5-6).
Credo che si possa ora dimostrare che quasi tutti i miracoli at-
tribuiti a Gesù possono essere spiegati come versioni ampliate di
storie di Mosè, di Elia e di Eliseo, o come applicazioni alla vita di
Gesù, in senso messianico, dei segni del regno di Dio in Isaia. Se
Gesù era il Messia, avrebbe inaugurato questo Regno e, pertanto,
i segni destinati ad annunciarlo sarebbero apparsi nella sua vita.
Cosicché i miracoli sarebbero segni da interpretare, non avveni-
menti soprannaturali che infrangono le leggi della natura.
Conviene prendere nota che Paolo sembra non aver saputo
assolutamente nulla di miracoli associati al ricordo di Gesù. Per
quanti sostengono che il documento Q e anche il Vangelo di Tom-
maso siano anteriori a Marco (tra i quali io non mi annovero),
credo che valga la pena indicare che nessuna di queste due fonti
presenta Gesù nell'atto di realizzare miracoli.
I miracoli associati a Gesù vengono introdotti nella tradizio-
ne cristiana con Marco, agli inizi dell' ottava decade del I secolo.
Successivamente, questi miracoli si ripetono quasi letteralmente
in Matteo, che scrive il suo vangelo a metà della nona decade. Si
ripetono e si ampliano in Luca, alla fine della nona decade e agli
inizi della decima. Diventano poi "segni" nel vangelo di Giovan-
ni, alla fine della decima decade. Un segno non è solo un avveni-
mento che può essere descritto; un segno punta al di là di se stesso
verso qualcosa che non può contenere.Il quarto Vangelo racco-
glie sette segni attribuiti a Gesù (Gv 2 -11). Credo sia da rimarcare
il fatto che il primo dei segni del Vangelo di Giovanni, la trasfor-
mazione dell'acqua in vino alle nozze di Cana di Galilea (Gv 2),
e l'ultimo, la risurrezione di Lazzaro a quattro giorni dalla sepol-
tura (Gv 11), non erano mai stati narrati e neppure menzionati in
alcuno scritto cristiano anteriore a Giovanni, il quale scrive tra i
65 e i 70 anni dopo la crocifissione.
I testi dei racconti di miracoli nei vangeli, che pretendono di
parlarci del potere soprannaturale di Gesù, sono pieni di sim-
boli da interpretare. I pani che vengono moltiplicati per alimen-
tare la moltitudine in Marco sono cinque sul lato ebraico del
lago, dove mangiano cinquemila uomini (più le donne e i bam-
bini) e avanzano dodici ceste dopo che tutti si erano sfamati (Mc
6,30-44). Successivamente, sul lato non ebraico del lago, i pani
sono sette e quelli che si alimentano sono quattromila, con sette
sporte di pezzi avanzati (Me 8,1-10). Mi sembra che si tratti di
una serie di piste offerte dagli autori dei vangeli perché venga-
no interpretate, in quanto trasformano la storia di Mosè e della
manna del deserto che alimenta gli israeliti in un racconto rife-
rito a Gesù. Ricordiamoci che Gesù sarebbe stato chiamato «il
pane della vita», quello che sazia la fame più profonda dell'ani-
ma umana (Gv 6). Se solo aprissimo gli occhi per vedere come i
racconti di miracoli del Nuovo Testamento non debbano essere
letti letteralmente come avvenimenti soprannaturali, ci avvicine-
remmo molto di più a ciò che gli evangelisti avevano in mente
quando cercavano di usare il testo d'Isaia 35 in modo che tro-
vasse compimento nei vangeli.
Questa esposizione sui miracoli potrebbe ampliarsi quasi inde-
finitamente: Gesù che risuscita dalla morte un bambino (Mc 5,22)
è un'eco del racconto di Eliseo che risuscita un altro bambino
(2Re 4,32-37). Gesù che risuscita dalla morte il figlio unico di una
vedova di Naim (Le 7) è un'eco di Elia che resuscita il figlio unico
di un' altra vedova (IRe 17). La risposta di Gesù alla domanda de-
gli inviati di Giovanni Battista, che era in prigione, incorpora il te-
sto di Isaia 35 alla tradizione dei vangeli (Mt 11,1-6; Le 7,18-23).
Tesi 6
L'interpretazione della croce come sacrificio per i peccati è
pura barbarie: è basata su concezioni primitive di Dio e dev' es-
sere abbandonata.
Nel libro dell'Esodo si racconta che l'inquietudine del popolo
giunse a limiti pericolosi allorché Mosè rimase a lungo assente per
ricevere da Dio la Torah e i dieci Comandamenti. Per calmare la
propria ansia, il popolo andò dal sommo sacerdote Aronne, fra-
tello di Mosè, e gli chiese di costruire un idolo, un vitello d'oro,
per avere una divinità che si potesse vedere. CosÌ Aronne fece e,
quando il vitello d'oro venne terminato, il popolo danzò intorno
all'idolo dicendo: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto
uscire dal paese d'Egitto!» (Es 32,1-6).
Mosè tornò dal popolo proprio in quel momento, portando,
secondo quanto narra la storia biblica, due tavole di pietra in cui
erano scritti i dieci Comandamenti. Dinanzi all'atto d'idolatria,
spezzò le tavole al suolo e si infuriò con il popolo, il quale, se-
condo il racconto, soffrì l'ira di Mosè e di Dio finché finalmen-
te Mosè disse che sarebbe tornato dal Signore e avrebbe cercato
di realizzare un'«espiazione» per il popolo (Es 32,30). In questo
antico riferimento notiamo che l'espiazione ha a che vedere con
il perdono. Ha a che vedere con un Dio che offre una seconda
opportunità. Quando lo Yom kippur - il giorno di espiazione -
venne introdotto nel culto ebraico, era questo, secondo il Levi-
tico, il suo scopo: celebrare il perdono di Dio, non il suo castigo
(Lv 23,23ss). Gli ebrei chiamavano lo Yom kippur "il Giorno di
espiazione", non "il Giorno dell' espiazione", perché il perdono
non è un fatto puntuale nel tempo, ma un processo permanente.
Lo Yom kippur includeva il sacrificio di animali che rappresen-
tavano i sogni umani di perfezione. Questi animali dovevano esse-
re fisicamente perfetti. Venivano esaminati scrupolosamente per
certificare che sui loro corpi non vi fossero cicatrici né contusioni
e che non si fossero mai rotti un osso. Certificata la perfezione fi-
sica, si poteva allora affermare la perfezione morale di queste cre-
ature. Il ragionamento era complesso, ma logico. Gli animali sono
al di sotto del livello umano per capacità di assumere decisioni.
Non potendo scegliere di fare il male, si poteva dire di loro che
in certo senso erano moralmente perfetti. Pertanto, questi animali
potevano rappresentare simbolicamente la perfezione cui anelano
gli esseri umani. Cosicché, nel Giorno ebraico di espiazione, gli
esseri umani potevano entrare alla presenza di Dio, malgrado fos-
sero peccatori, perché lo facevano sotto il simbolo di una creatura
perfetta fisicamente e moralmente.
Quando i gentili conobbero questa pratica, pensarono che gli
animali fossero sacrifici richiesti e che dovessero presentarli come
offerta a Dio per essere perdonati. Questi animali sarebbero stati
il prezzo che Dio reclamava per offrire il suo perdono.
Nella liturgia dello Yom kippur, nel I secolo, i due animali era-
no un agnello e un capro. Si sacrificava l'agnello, gli veniva estrat-
to il sangue e il sommo sacerdote, dopo essersi sottomesso a un'e-
laborata purificazione cerimoniale, entrava nel Santo dei santi, il
santuario interno del Tempio, il luogo più santo, dove si trovava il
trono terreno di Dio, chiamato «la Sede della misericordia». Ver-
sava allora in questo luogo il sangue dell' agnello perfetto di Dio,
fino a ricoprire la Sede della misericordia. Ciò significava che il
popolo, indipendentemente da quanto si fosse allontanato dalla
volontà di Dio, poteva continuare a entrare alla sua presenza, in
quanto si avvicinava «attraverso il sangue dell'agnello perfetto».
Lo Yom kippur aveva allora a che vedere con la riconciliazione,
con la vita umana che si unisce a Dio. Non aveva a che vedere con
il castigo.
Quando il rituale dell’agnello era ultimato, il secondo animale,
il capro, era condotto al sommo sacerdote, dinanzi all' assemblea
del popolo. Il sommo sacerdote, afferrando le corna dell' animale,
iniziava a offrire preghiere di confessione in nome del popolo. Il
simbolo qui operante era che il popolo veniva liberato di tutti i
suoi peccati, che venivano caricati sulla testa e sulle spalle del ca-
pro. Il quale allora, come portatore dei peccati del popolo, rice-
veva le grida di maledizione della gente, che ne invocava la morte.
Ma l'animale non era sacrificato, bensì veniva fatto passare tra
l'assemblea e condotto nel deserto, portando su di sé i peccati del
popolo. Così, il popolo restava puro e libero dal peccato, almeno
per un giorno. Lo Yom kippur si riferisce allora al popolo che tor-
na a unirsi a Dio. Non ha nulla a che vedere con il castigo.
Al momento dell’elaborazione dei vangeli, le immagini dello
Yom kippur vennero più volte trasferite nel racconto di Gesù.
È Paolo, nel racconto della crocifissione, a dare il via a questo
processo nella prima Lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri
peccati secondo le Scritture» (1 Cor 15,3). È un chiaro riferimen-
to all'azione liturgica dello Yom kippur. Più tardi, Marco usa la
parola «riscatto» per riferirsi alla morte di Gesù (Mc 10,45). Una
volta ancora, si tratta di un concetto ripreso dalla liturgia dello
Yom kippur. Quando viene scritto il quarto Vangelo, verso la fine
del I secolo, il suo autore mette in bocca a Giovanni Battista, la
prima volta che vede Gesù, questa interpretazione, con le parole:
«Ecco l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29).
Tali parole derivano direttamente dalla liturgia dello Yom kippur.
Vi sono altri luoghi in cui la liturgia dello Yom kippur sembra
avere dato forma al racconto su Gesù. Quando Pilato presenta
Gesù alla moltitudine, la gente risponde lanciando maledizioni e
invocando la sua morte. «Crocifiggilo, crocifiggilo», si suppone
che gridi la gente. I lettori ebrei riconosceranno tutta questa scena
come qualcosa ripreso direttamente dalla liturgia dello Yom kip-
puro Colui che carica su di sé i peccati merita la crocifissione (Mc
15,13; Mt 27,22).
L'inclusione della storia di Barabba nel racconto della passione
potrebbe essere un altro riferimento allo Yom kippur (Mc 15,6ss).
Barabba è un nome formato dalle parole ebraiche o aramaiche
"bar", che significa "figlio", e "abba", che significa Dio o padre.
Così Barabba significa, letteralmente, "figlio di Dio". Di modo
che i vangeli presentano due "figli di Dio" al momento della cro-
cifissione, nello stesso modo in cui nello Yom kippur vi erano due
animali. Nei vangeli, uno dei "figli di Dio", Gesù, viene sacrifica-
to e l'altro, Barabba, resta libero. Potrebbe essere questo un altro
luogo in cui i simboli dello Yom kippur hanno dato forma al rac-
conto della passione? lo credo di sì.
Le generazioni successive di cristiani gentili, che non erano
consapevoli della tradizione ebraica dello Yom kippur, sottopo-
sero questi simboli a una rozza interpretazione letterale e svilup-
parono le idee ora associate alla cosiddetta" espiazione vicaria".
Il concetto inizia a svilupparsi a partire dall'idea della deprava-
zione degli esseri umani, caduti, si diceva, nel "peccato originale"
a causa della disobbedienza umana alle leggi di Dio. Era stato det-
to ad Adamo ed Eva: «Non dovete mangiare del frutto dell' albero
che sta in mezzo al giardino». Il frutto dell’albero, l'albero della
conoscenza del bene e del male, era proibito sotto pena di mor-
te (Gen 3,1-7). Si pensava che, al momento di trasgredire questa
norma, si fosse rotta la perfezione originale della creazione di Dio.
Allora, gli esseri umani disobbedienti erano stati allontanati dal-
la presenza di Dio nel giardino dell'Eden, e obbligati a vivere «a
est dell'Eden».' Erano talmente corrotti dal peccato originale che
solo Dio avrebbe potuto recuperarli, attraverso un suo interven-
to. Dal momento che il castigo per il loro peccato era più di quan-
to qualsiasi essere umano avrebbe potuto sostenere, si sviluppò
l'idea che Dio avrebbe messo il suo figlio divino al posto dei pec-
catori, che lo meritavano. Cosicché venne disposto che ci fosse
un sostituto e Gesù si trasformò nella vittima dell'ira divina. Dio
punì Gesù invece di punire il peccatore che lo meritava. I cristia-
ni iniziarono a dire: «Gesù ha sofferto per me». E la frase «Gesù
è morto per i miei peccati» diventò il mantra della vita cristiana,
ma a un prezzo terribile.
La teologia dell’espiazione ha segnato profondamente la for-
ma che avrebbe adottato il cristianesimo. Come ho detto in una
delle tesi anteriori, Dio è diventato un mostro incapace di perdo-
no. Prima di concedere il suo perdono, questa divinità castigatri-
ce esigeva una vittima, un sacrificio umano, un' offerta di sangue.
Non era più un Dio della seconda opportunità.
Gesù si è trasformato nella vittima cronica del castigo di Dio. Il
divin figlio di Dio ha ricevuto il castigo del divin padre.
D'altro lato, questa teologia non ha creato un mondo di disce-
poli, ma di vittime. Siamo diventati i responsabili della morte di
Gesù. Gli assassini di Cristo, pieni di colpa.
Come abbiamo già visto, le implicazioni di questa teologia sono
onnipresenti nella tradizione cristiana. Con il tempo, questa teo-
logia ha fatto sì che la nostra principale risposta nel culto diven-
tasse quella di presentare suppliche a Dio perché abbia miseri-
cordia. «Signore, pietà; Cristo, pietà; Signore, pietà». Abbiamo
ancora nella nostra liturgia questo triplice "kyrie", anche ripetuto
nove volte. «Kyrie eleison» è semplicemente la forma greca di «Si-
gnore, pietà».
Che razza di Dio è questo di fronte a cui ci vediamo ridotti a
mendicanti servili che supplicano misericordia? Nel caso di un
bambino spaventato dinanzi a un padre abusatore sarebbe, sì, ap-
propriata una richiesta di misericordia, come sarebbe appropria-
ta nel caso di un pregiudicato al cospetto di un giudice che può
condannarlo a morte. Ma tale atteggiamento sarebbe appropriato
nel caso di un figlio di Dio che si trova dinanzi a colui che viene
concepito come "la fonte della Vita", "la fonte dell'Amore" e "il
fondamento dell'Essere"? Non lo penso.
L'espiazione vicaria è sbagliata sotto tutti i punti di vista. Il no-
stro problema non è quello di essere peccatori caduti da una per-
fezione originale in qualcosa chiamato "peccato originale". Il no-
stro problema è che siamo essere umani incompleti che anelano
a essere di più, a raggiungere la pienezza. Non abbiamo bisogno
di essere risollevati da una caduta che non abbiamo mai sofferto.
Abbiamo bisogno di essere accettati e amati semplicemente per
ciò che siamo, per arrivare a essere tutto ciò che possiamo essere.
Neppure possiamo essere "reintegrati" in una perfezione che non
abbiamo mai avuto.
Un cristianesimo basato sull'idea di una espiazione vicaria è un
cristianesimo basato su una visione inesatta e poco appropriata di
ciò che significa essere umani. Una buona teologia non può mai
essere costruita su una cattiva antropologia. Non siamo peccatori
caduti che hanno bisogno di essere salvati. Siamo esseri umani in-
completi, che hanno bisogno di pienezza.
Questa differenza è cruciale, e il cristianesimo che sarà capace
di riconoscerla sarà quello che sopravvivrà e perdurerà nel futuro.