Il feeling tra 5 stelle e Costituzione è in piena crisi
Per difendere la Costituzione il Movimento 5 Stelle salì perfino sul tetto della Camera dei Deputati. Durante la campagna referendaria contro la riforma Renzi-Boschi un indiscutibile feeling legava i Grillini al ‘popolo della Costituzione’: un rapporto che si è tradotto almeno in parte anche in un voto.
Ebbene, oggi quel rapporto è in piena crisi. Una parte rilevante del ‘popolo della Costituzione’ inizia a pensare che tra il Movimento e la Carta ci sia un rapporto simile a quello tra la Sinistra e la giustizia sociale: una bandiera per quando si è all’opposizione, un intralcio da cui liberarsi non appena si arriva al governo.
Sia chiaro: non c’è, almeno per ora, un attacco formale alla Costituzione. A differenza di quelle partorite da Berlusconi e da Renzi, le riforme costituzionali proposte dal ministro Fraccaro, comunque le si valutino nel merito, sono rispettose dell’articolo. Ed è questo, sia detto per inciso, il motivo per cui la «Zagrebelsky e associati» (come la definisce quasi quotidianamente il «Foglio») non è in armi contro questo governo, o almeno non sul fronte costituzionale. La tesi del Foglio è che dopo aver urlato ‘al lupo’ contro chi lupo non era (Berlusconi e Renzi), ora i ‘professoroni’ tacciono contro i veri lupi della Costituzione (i 5 Stelle). Una tesi in malafede: perché da una parte c’erano stravolgimenti formali approvati dalle Camere, qua si parla di dichiarazioni, di stile, di silenzi.
Ribalterei quella tesi nei seguenti termini: la stessa malattia che ha colpito i berlusconiani e i renziani sembra ora attaccarsi ai grillini. Se quelli avevano la febbre a 40, qua si comincia a registrare un 37,5 da non trascurare. È una conclusione che sembra fatta apposta per fare imbestialire tutte le tifoserie, ma è la più vicina alla verità: e cioè che i grillini non sono troppo alieni, ma troppo normali. E la normalità culturale di questo momento storico è un netto antiparlamentarismo, nutrito di diffidenza verso la democrazia rappresentativa; è la retorica della democrazia diretta; è la passione per la prevalenza dell’esecutivo sul legislativo; è l’attrazione per la disintermediazione. Era questa la cifra delle riforme berlusconiane e renziane: e questa sta diventando anche la cifra dei 5 Stelle di governo.
L’antiparlamentarismo militante è il tratto più evidente della retorica di Di Maio e compagni. L’identificazione del Parlamento con la ‘casta’ (la battaglia esasperata sui vitalizi), l’annunciata riduzione dei parlamentari (contraddittoria con gli ideali di di democrazia diretta, visto che allenta e annacqua ancora il nesso rappresentante-rappresentati) e soprattutto la dichiarata volontà di andare verso il vincolo di mandato dimostrano il disamore verso l’impianto parlamentare, che è il cuore procedurale della nostra Costituzione. E anche la prospettiva di un referendum propositivo senza quorum sembra del tutto indifferente agli equilibri della democrazia: davvero siamo pronti a farci imporre le leggi da una minoranza agguerrita?
Se queste sono le riforme annunciate, c’è poi la prassi del governo del cambiamento: che non cambia un accidenti, perché si nutre di decretazione d’urgenza esattamente come per i governi precedenti. Un esempio scandaloso: il Decreto Sicurezza, che limita in modo gravissimo le libertà e le garanzie costituzionali (nonostante l’incredibile firma di Mattarella, presidente assai più sensibile alle regole di bilancio che non ai diritti umani) e che è passato come necessario e urgente senza essere né l’uno né l’altro.
Aggiungiamo il (pessimo) folklore: le uscite di Casaleggio sulla futura inutilità dei parlamenti e di Grillo sui poteri costituzionali del Capo dello Stato: parole in libertà, ma parole che guarda caso vanno nella stessa direzione degli altri segnali citati. Ancora: la totale disintermediazione che porta a fare il Def senza confrontarsi con le parti sociali, nel miglior stile renziano. Le intemerate di Di Maio contro i giornali: che fanno capire che il vicepresidente del Consiglio, nel migliore dei casi, non ha capito quali sono i limiti anche verbali dell’esecutivo in una democrazia moderna.
E poi c’è la sostanza. Berlusconi e Renzi erano lontani anni luce dalla Costituzione non solo perché hanno provato a stravolgerla formalmente: quella fu la conclusione. Ne erano remoti perché non ne condividevano il progetto: l’Italia che avrebbero creato se avessero avuto la bacchetta magica sarebbe stata profondamente diversa, per larghi tratti opposta, a quella immaginata dalla Costituzione.
Nel famoso discorso del 1955 ai giovani di Milano Piero Calamandrei disse: «La parte più viva, più vitale, più piena d’avvenire, della Costituzione, non è costituita da quella struttura d’organi costituzionali che ci sono e potrebbero essere anche diversi: la parte vera e vitale della Costituzione è quella che si può chiamare programmatica… La Costituzione contiene in sé un programma politico concordato, diventato legge, che è obbligo realizzare».
Qual è il cuore di questo programma? Ancora Calamandrei: «Dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità d’uomini».
Ebbene: in che direzione va la politica del governo in cui i 5 Stelle sono gli azionisti principali? La politica razzista sui migranti, la stretta ‘texana’ sulla legittima difesa danno o tolgono «a tutti gli uomini dignità d’uomini»? L’ulteriore spallata alla progressività fiscale (caposaldo della Costituzione) sferrata dalla presenza della flat tax nel contratto di governo? Il reddito di cittadinanza fatto così va verso «il pieno sviluppo della persona umana» o no?
Certo, ci sono anche segnali contrastanti: la lotta alle privatizzazioni e quella (però confusa e senza un progetto) contro l’austerità europea, per esempio. Ma, dobbiamo chiederci, l’Italia che i 5 Stelle stanno iniziando a costruire va verso l’Italia della Costituzione, o – come prima, come sempre – va in direzione opposta?
La domanda è urgente, le risposte per nulla tranquillizzanti.