Debito pubblico: una storia da riscrivere

 

di Francesco Gesualdi
 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 32 di Gennaio-Febbraio 2018: "Debito globale: come uscirne?

 

E’ opinione comune che ci siamo indebitati perché siamo un popolo sprecone. Una comunità che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità usando i soldi degli altri per garantirci il lusso alla salute, all'istruzione, alla previdenza sociale. Ma se analizziamo la storia del nostro debito pubblico ci rendiamo conto che si tratta di una favola.

Partiamo dal 1980: a quel tempo il debito pubblico ammontava a 114 miliardi (58% del Pil). Negli undici anni successivi lo stato si indebitò per altri 140 miliardi per garantire ai cittadini servizi e investimenti di misura superiore al gettito fiscale. Fra debito iniziale e debito aggiunto, in totale fanno 254 miliardi, in realtà nel 1992 lo troviamo a 847 miliardi. Gli altri 593 miliardi vennero contratti per pagare gli interessi.

Nel 1992 con il governo Amato, l’Italia entra in austerità, ossia decide di spendere a favore dei cittadini meno di quanto incassa. Questa operazione si è ripetuta tutti gli anni ad eccezione del 2009, procurandoci un risparmio complessivo, dal 1992 al 2016, pari a 768 miliardi di euro. Ciò nonostante il debito ha continuato a salire fino all’astronomica cifra di 2250 miliardi perché i risparmi non sono stati sufficienti a coprire l’intera spesa per interessi. Su un ammontare complessivo di 2038 miliardi, relativi a tutto il periodo, ben 1270 sono stati pagati con nuovi prestiti, mettendoci nella trappola infernale del debito che alimenta se stesso.

Il debito è come una zecca. Affonda il suo arpione nelle casse pubbliche e sottrae denaro sotto forma di interessi. Nel 2016 ne ha sottratti 68 miliardi di euro, nel 2012 addirittura 87 miliardi per un semplice capriccio della speculazione. Soldi di tutti, che invece di andare a finanziare scuole, trasporti pubblici, sanità, ricerca, tutela dell'ambiente, vanno ad ingrassare gli azionisti delle grandi strutture finanziarie. In effetti solo il 5,4% del debito pubblico italiano è detenuto dalle famiglie. Tutto il resto è nelle mani di banche, assicurazioni, fondi d’investimento, così detti investitori istituzionali, sia italiani che esteri. Più precisamente quelli italiani detengono il 63,1% del nostro debito, quelli esteri il 31,5%.

Si può senz’altro affermare che il debito verso i privati è un meccanismo di redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai più ricchi perché solo i facoltosi hanno un sovrappiù da prestare allo stato. E i risultati si vedono: l’Italia è sempre più disuguale. Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza accumulata sotto forma di case, terreni, titoli, le famiglie più ricche, pari al 10% del totale, detengono il 46% dell’intera ricchezza privata, quelle più povere, pari al 50% del totale, posseggono il 9,4%. I segnali di un’Italia sempre più disuguale si ritrovano anche nella distribuzione del reddito. Ogni individuo del 10% più ricco ha un introito annuale di 77.189 euro, mentre quello del 10% più povero si ferma a 6.521 euro. Un divario di quasi 12 a 1. Situazione peggiore degli anni ottanta quando il rapporto era 8 a 1.

Il sottoprodotto dell’ingiustizia è la miseria che il debito aggrava tramite l’austerità, scelta classica di uno Stato asservito alla finanza. Assunto come priorità il pagamento degli interessi, lo stato cerca di raggranellare il dovuto aumentando le entrate e riducendo le spese. Ma se conduce l’operazione tassando poveri e ceto medio, invece che ricchi e benestanti, e tagliando servizi essenziali, invece che sprechi e privilegi, per molte famiglie le conseguenze sono drammatiche.

In effetti in Italia cresce il numero di persone che non riesce a mangiare adeguatamente tutti i giorni, che non riesce a tenere il passo con le bollette e con l’affitto, che non può scaldare la casa, che non sa come affrontare una spesa imprevista di una certa consistenza. L’Istat attesta che gli italiani in questo stato di “grave deprivazione materiale” sono oltre sette milioni, il 12,1% della popolazione. Ma ci avverte che altri 11 milioni di persone vivono sul filo del rasoio a causa di redditi troppo bassi o di lavori troppo precari. Per edulcorarla un po’, gli statistici non la chiamano precarietà ma “bassa intensità di lavoro”. La sostanza tuttavia non cambia: si tratta di persone che lavorano meno di un quinto del tempo pieno a cui avrebbero diritto. Il 12,8% degli italiani vive in famiglie dove la mamma, il papà e altri componenti adulti non riescono a lavorare più di 10 settimane all’anno. Poi non c’è da stupirsi se il 20% degli italiani dispone mediamente di un reddito che sta sotto gli 8mila euro l’anno, il 60% della mediana nazionale.

La conclusione è che fra chi è già caduto nella fossa della grave deprivazione materiale e chi è a rischio di scivolarci dentro, il numero complessivo di persone che viaggia nell’orbita della povertà è superiore ai 18 milioni, il 30% della popolazione italiana.

Lungo questa strada, l’intero sistema entra in una spirale di crisi che trascina tutti verso il fondo. Se aumentano le persone in difficoltà, i consumi si contraggono, le imprese non ricevono ordini, i licenziamenti si moltiplicano. Più nessuno investe in attività produttive, l’unico settore in espansione è la finanza. Negli ultimi 10 anni in Italia la domanda complessiva si è ridotta ai minimi storici facendo salire la disoccupazione alle stelle. Nel 2017 i disoccupati erano 3 milioni pari all’11,7% della forza lavoro. Ma il dato si riferisce solo a chi cerca attivamente lavoro. Se si includesse nel conteggio anche coloro che un lavoro salariato lo vorrebbero, ma non lo cercano perché scoraggiati, il numero dei disoccupati salirebbe a 6,4 milioni, il 23% della forza lavoro. Purtroppo anche la pubblica amministrazione contribuisce al problema: fra il 2013 e il 2016 ha perso 84mila unità.

Il debito che si autoalimenta attraverso gli interessi è una delle forme più odiose di strangolamento: è usura. Ma gli strumenti per sottrarci a questo meccanismo perverso  ci sono: vanno dal congelamento degli interessi, al ripudio del debito illegittimo; dall’imposizione di un prestito forzoso a carico dei cittadini più agiati, ad una tassazione progressiva del reddito e del patrimonio; dall’introduzione di una moneta complementare nazionale, alla riforma della Banca Centrale Europea; dal controllo della fuga di capitali alla regolamentazione della speculazione sui titoli del debito pubblico. Il problema non sono gli strumenti, ma la volontà di perseguire politiche non gradite ai ricchi e ai poteri della finanza. 

L’unica forza capace di imporre un’altra gestione del debito, rispettosa dei diritti sociali, è la pressione popolare. Ma i cittadini si attivano solo se si rendono conto dei danni che subiscono. Di qui la necessità di avviare una grande indagine popolare per individuare tutti i meccanismi che hanno aggravato la situazione del debito italiano non per rendere un servizio ai cittadini, ma per servire interessi particolari. Un’analisi che va condotta sia sul lato delle entrate che su quello delle uscite. Sul versante delle entrate si tratta di stabilire il peso dell’elusione fiscale e delle perdite dovute alle tante riforme fiscali effettuate in questi anni per ridurre l’imposizione sui patrimoni e sui redditi alti. Sul versante delle uscite si tratta di stabilire il peso degli interventi a favore di interessi particolari come le banche e più in generale le imprese, della corruzione, dei derivati congegnati per arricchire le banche e depredare le casse pubbliche, delle spese per missioni militari in contrasto con l’art.11 della Costituzione, delle grandi opere costruite per garantire affari alle imprese costruttrici contro l’ambiente e la popolazione locale. 

Esperienze di indagine sul debito illegittimo sono già state realizzate in Ecuador e in Grecia. Ora si tratta di realizzarla anche in Italia coinvolgendo un numero di forze popolari quanto più ampio possibile. Mescolando inglese e francese, in Francia l’hanno chiamato audit citoyen, dove audit sta per revisione, indagine e citoyen per cittadino. Il senso è che l’indagine deve essere effettuata dai cittadini con l’arruolamento volontario di tutti e la nascita di formazioni locali e specialistiche. Una sorta di armata partigiana che si infoltisce cammino facendo.