Risorto il terzo giorno
Tratto da: Adista Documenti n° 1 del 13/01/2018
Di seguito, alcuni stralci tratti dal sesto e dal settimo capitolo del libro di Roger Lenaers: Gesù di Nazaret. Uomo come noi?, edito da Gabrielli Editori (pp. 144, 16 euro), con prefazione di Ferdinando Sudati
Per Paolo e i suoi cristiani la morte di Gesù in croce fu un’enorme vergogna, uno skandalon, una pietra d’inciampo. Come poteva fallire tanto miseramente il Messia mandato da Dio, il Salvatore d’Israele?
(...). Per l’uomo e la donna della modernità, invece, impensabile e inimmaginabile non è la morte di Gesù in croce. Quella è comprensibile, anzi, quasi ovvia, se si pensa all’opposizione tra l’idea di Dio che aveva Gesù – e la conseguente prassi – da un lato e le concezioni religiose dei capi giudei dall’altro. (...). Ciò che essi non riescono a concepire è piuttosto la convinzione delle Chiese che sia risorto. Una convinzione che si fa beffe di ogni ragione. Che un morto possa tornare a vivere e alzarsi dalla tomba è semplicemente impensabile. (...). Chi parla di risurrezione vive ancora, inconsciamente, in un mondo magico e mitico. Il fatto che malgrado ciò ci siano oggi innumerevoli persone, anche nell’Occidente moderno, che professano senza problemi la risurrezione di Gesù è (...) un oltraggio fin troppo evidente a ogni punto di vista normale, che sembra porre il credente moderno di fronte a un dilemma: o riconoscere con la modernità che la risurrezione di Gesù è impossibile, ma allora smettendo di essere credente, visto che essa è il cuore del messaggio cristiano, oppure continuare a credere che Gesù è risorto, ma così autoescludendosi dalla modernità.
Ma si tratta davvero di un dilemma? Non c’è una terza possibilità: emancipare la nozione di risurrezione dal rivestimento mitologico che l’avvolge, traducendo il nucleo che ne trapela in modo che “risurrezione” non collida più con la scienza moderna? La nozione di risurrezione, infatti, è sorta in una cultura premoderna: è un tentativo culturalmente determinato di definire esperienze che all’epoca non era possibile esprimere in modo diverso e migliore. Ma nella modernità esprimerle in modo diverso e migliore è possibile e irrinunciabile.
Di quali esperienze si trattava e si tratta? In ultima analisi, (...) si tratta della liberante esperienza che l’essere umano è oggetto delle cure di una realtà originaria che tutto crea e supporta, una realtà che è vita e trasmette vita. La tradizione ebraico-cristiana rimanda a questa misteriosa realtà originaria con i termini “YHWH” e “Dio”. (...).
Nella modernità dobbiamo (...) mettere a punto una nuova immagine dell’essere umano.
Questa nuova immagine parte dall’idea di fondo che il cosmo, con l’essere umano come suo culmine provvisorio, sia l’autoespressione sempre più riccamente in sviluppo di una realtà originaria spirituale che non può essere colta attraverso i concetti con cui il pensiero umano cerca di comprendere le altre cose. L’unica via è tentare di approssimarvisi. I concetti meno errati con cui parlare della realtà originaria sembrano essere “vita” e “amore”. È qui che incontriamo la tradizione credente, così come si è condensata nella Prima Lettera di Giovanni (4,9) nella formula “Dio è amore”. Per questa professione di fede la comunità dei credenti si affida completamente all’esperienza di Dio che ha fatto Gesù, il quale nel più profondo di sé lo ha vissuto come amore assoluto e lo ha pregato chiamandolo Abba, “caro Padre”. Credere in lui significa dunque cercare di prendere parte al suo rapporto con Dio e al suo mistero.
Quanto più si lascia guidare dall’amore gratuito, tanto più l’essere umano si fonde con Dio, che è amore e vita, e tanto più vive. Per il credente Gesù è uno che, mosso dall’amore originario, ha messo in gioco tutto se stesso per i suoi simili. Suggellando questo modo di essere con la morte, la sua fusione con il mistero originario che è Dio ha raggiunto il compimento. Ecco come rendere in una prospettiva moderna di fede ciò che è accaduto a Gesù nella sua morte e che non siamo più in grado di immaginare. Non possiamo più immaginarlo perché è Dio stesso l’Inimmaginabile. È troppo facile, e dunque troppo poco plausibile, pensare a una risurrezione corporale.
Nella visione mistica del Vangelo di Giovanni possiamo ritrovare tracce di questa concezione moderna di fede. In esso la morte in croce di Gesù è il momento della sua glorificazione o compimento. In altre parole, Gesù vive la risurrezione nella sua stessa morte in croce. I testi da cui traspare questo elemento sono 12,24, che parla del chicco di grano che vive in pienezza morendo nella terra; 12,32, riferito alla grande potenza che emanerà dalla sua morte in croce, con lui che attirerà tutti a sé; 19,37, da cui emerge che molti guarderanno a lui con ammirazione e venerazione malgrado l’apparente sconfitta. A un livello più implicito, il quarto evangelista fa trapelare tutto questo mettendo tanto più palesemente in evidenza nella narrazione la dignità regale di Gesù quanto più ne è evidente l’umiliazione. Tutta la scena da Pilato – sconosciuta ai sinottici – che termina con l’incoronazione di spine e l’Ecce homo, ha fondamentalmente questa funzione. Così facendo Giovanni spezza per un attimo la logica mitologica della sua stessa cultura premoderna, per la quale morire e risorgere non possono essere due modi per dire la stessa cosa, ma devono essere due diverse tappe, intervallate da una fase di sonno mortale, nel caso di Gesù di sole trentasei ore. Per un momento Giovanni vede la sacra unità del tutto. Poi la visione finisce, e ogni cosa ritorna nel solco della tradizione. (...).
Perché lasciarsi alle spalle i concetti della Tradizione?
(...). Ma è davvero necessario lasciarsi alle spalle le idee chiare e distinte di un tempo e percorrere la ripida e stretta via di una riformulazione fatta con idee assai meno chiare, solo per non chiudere la porta alla modernità? Non si può forse incontrare Dio anche oggi ricorrendo alle forme tramandate? E in Europa non c’è nemmeno un battezzato su diecimila a farsi qualche scrupolo ad accettare di credere, come nella pre-modernità, a un Dio che interviene nel cosmo e a un Gesù che è uomo ma anche Dio onnipotente, e a tutta la mitologia della Chiesa, e quindi anche alla risurrezione corporale di Gesù il terzo giorno dopo la morte. E nel terzo mondo non ha difficoltà a credervi neanche uno su un milione di credenti.
A quanto pare, problemi non se ne fanno nemmeno le gerarchie della Chiesa. E poi una riformulazione del genere cambierà molto le cose? Impedirà forse ai molti per cui la logica e il linguaggio premoderni della Chiesa sono una pietra d’inciampo di uscirne? O riporterà forse all’ovile gli innumerevoli che ne sono già usciti? (...).
Questo libro serve almeno a una cosa: che i credenti in ricerca delusi dalle dottrine ufficiali, forse un piccolo gregge, possano trovare nei pensieri che propone una risposta di liberazione. E che la preziosa luce della verità non resti più nascosta sotto il moggio di opinioni acriticamente accettate. Per parafrasare la nota frase di Aristotele su Platone: “La Chiesa premoderna mi è cara, poiché le devo l’esperienza di fede tanto importante che ho fatto. Ma la verità mi è ancora più cara”. (...).
Il vero fondamento della nostra fede nella risurrezione
(...). Su che cosa si fonda dunque la nostra fede nella risurrezione? Sul fatto che “vediamo” il Gesù vivo. Un “vedere” che è frutto della predicazione. Il racconto dei due discepoli di Emmaus può essere letto come la parabola di questo processo. Lo straniero che porta i due alla lieta consapevolezza che Gesù è vivo è colui che predica la fede. Fa sorgere in loro un vedere interiore, un’esperienza di senso e pienezza alla quale prendere parte credendo in Gesù come in colui che vive. Dalla fredda cenere non nascono scintille, e da un morto non sorge vita. Non ci sono ragionamenti che rendano ragione di questa esperienza di vita e pienezza. (...).
Se supponiamo che la Chiesa sia sorta dall’incontro di fede con il Gesù vivo e che essa abbia reso visibile in molte forme la sua figura attraverso i secoli – con “Chiesa” non intendiamo soltanto quella cattolica romana, ma tutta la comunità che crede in Gesù –, non è audace affermare che essa offrirà di questa figura un’interpretazione più adeguata rispetto a chi in lui non crede. Il che significa inoltre che quello che intendiamo con “risurrezione di Gesù” ha un’importanza decisiva per la risposta che vogliamo dare alla domanda posta dal titolo di questo libro: Gesù di Nazaret, un uomo come noi? La risposta, evidentemente, è: sì e no. (...).
“Redenzione” e “risurrezione dei morti” tradotti in termini moderni
(...). Per Gesù era evidente che la vera liberazione dell’essere umano è la sua umanizzazione sempre più perfetta, che non è un prodotto del potere, ma il frutto del servizio compiuto gratuitamente. Egli stesso ha messo in pratica questa intuizione, e quante più persone lo seguono su questa strada tanto più si realizza a mano a mano quella nuova creazione del mondo. Il linguaggio con cui la comunità di fede ha espresso queste cose in epoche premoderne si fonda su concezioni che la modernità non condivide più: Gesù ci ha redenti, ci ha comprati, ci ha salvati, ci ha giustificati, ci ha riconciliati con Dio con il suo sangue. Oggi preferiremmo dire: ricolmo egli stesso dell’amore originario che è Dio, e da questo mosso, con la sua forza di attrazione ci spinge a diventare simili a lui, ci ispira, ci riempie della sua sensibilità, fa di noi esseri umani nuovi, realizzando in questo modo un mondo progressivamente risanato.
A seconda di quanto ci lasciamo coinvolgere da lui, partecipiamo tutti della sua “risurrezione”, cioè del suo fondersi con l’amore originario, e così risorgiamo anche noi con lui alla vita definitiva. Già ora. Lo professiamo senza problemi e primariamente quando pensiamo in questo senso a coloro che veneriamo come santi. Venerarli significa infatti professare che sono vivi e ci ispirano, e che dunque sono “risorti”, pur senza minimamente pensare a un sepolcro vuoto. Questa “risurrezione” è il frutto della loro unità con il Gesù vivente, cresciuta in loro, perché si sono lasciati pervadere dal suo atteggiamento e dalla sua sensibilità. Inconsapevolmente si è sempre professato che essi vivono al di là della morte. Non si sono mai venerate e invocate, infatti, le anime dei santi, nemmeno recandosi in pellegrinaggio sulle loro tombe o ai loro resti mummificati sotto gli altari; no, si sono sempre venerati loro stessi. (...).
Ma ciò che vale per i santi vale per ogni essere umano, a seconda di come si è lasciato guidare nella vita dall’amore. E questo, in qualche modo, lo fanno tutti. L’amore originario che è Dio, infatti, plasma ogni essere umano come espressione parziale della sua essenza, istradandolo ovviamente nella direzione dell’amore. I santi si distinguono dalle persone comuni solo perché hanno accolto in modo non comune questo istradamento. Non li hanno santificati gli esercizi di penitenza, la “santa anoressia”, le lunghe preghiere o le esperienze mistiche, bensì solo la gratuità. Ma poiché ogni essere umano, anche solo di tanto in tanto, anche solo un pochino, si fa muovere dall’amore, ciascuno di noi sopravvivrà alla morte, anche solo un pochino.
Per farsi muovere dall’amore non bisogna per forza conoscere la vita o il messaggio di Gesù. Conoscerli, esserne attratti, aiuta moltissimo. Ma i miracoli di umanità li troviamo anche al di fuori di un contesto in qualche modo cristiano: persone che vivono come vivono perché spronati dal Dio-amore originario e di cui possiamo dire, come dei santi, che al momento della morte “risorgono”. (...).
Giungiamo così a un modo moderno e ragionevole di intendere l’articolo finale della professione di fede, quello relativo alla risurrezione dei morti, o, come si diceva un tempo, della carne. Un articolo di fede che alle orecchie della modernità suona quasi ridicolo. I miliardi di esseri umani succedutisi nella storia del mondo, ormai diventati polvere (o ancor meno), dovrebbero tutti risorgere, subito sani e salvi, in carne e ossa, risvegliati dal sonno della morte dalle trombe del Giorno del Giudizio? È così che l’ha immaginato la Chiesa premoderna. (...). Ma se viene a significare, come accennato, che l’essere umano continua a vivere oltre la morte a seconda di come ha amato, “risurrezione” non è più un concetto impensabile, né dunque irritante. Ciascuno di noi “risorgerà”, in maggiore o minore pienezza, in base alla possibilità che ha avuto il seme divino di svilupparsi nelle profondità del nostro essere. E non risorgeremo il Giorno del Giudizio, ma al momento della morte. Come Gesù.
Diventa così ancora più evidente l’intimo nesso tra la risurrezione di Gesù e quella dei credenti, nesso che Paolo esalta in modo tanto appassionato nella Lettera ai Corinzi: se non è risorto, allora non c’è risurrezione nemmeno per noi, e se non c’è risurrezione per noi, non c’è risurrezione nemmeno per lui (cfr. 1 Cor 15,12.16). E si comprende meglio anche perché, in questo stesso contesto, egli chiama Gesù “primogenito tra molti fratelli” (e ovviamente sorelle) (Rm 8,29): è la stessa fusione con il mistero di Dio che è frutto dell’amore, in misura ricolma in Gesù, nella misura dei loro limiti umani nei fratelli e nelle sorelle.
Gesù di Nazaret, un uomo come noi?
Abbiamo iniziato il libro ponendoci questa domanda, e ora possiamo darle una risposta: che è, come si poteva immaginare e come abbiamo fatto capire, un sì e anche un no. Sì, perché Gesù non è cittadino di un altro mondo, un alieno venuto ad abitare tra noi per un po’, un taumaturgo o un mago onnisciente e onnipotente, un Dio in sembianze umane, disceso dal cielo per noi con una duplice coscienza, divina e umana – mentre noi dobbiamo accontentarci di una sola, e pure limitata –, il Figlio “unigenito” di Dio. È un uomo come noi, con gli stessi bisogni, gli stessi desideri e le stesse reazioni che abbiamo noi. Nei Vangeli lo vediamo digiunare ma anche banchettare, il che tra l’altro per i suoi avversari è una ghiotta occasione per dargli del crapulone e del beone; lo vediamo stanco dopo tanto cammino, seduto sulla pietra di un pozzo oppure disteso a dormire in una barca nel bel mezzo di una tempesta, cercare affamato dei fichi sull’albero e arrabbiarsi perché non ce ne sono, non nascondere la delusione per lo scarso successo dei suoi sforzi di trovare orecchie attente al suo messaggio. Per qualche tempo è persino dipeso dalla carismatica personalità del Battista. Tutto molto umano. E ha provato lo stesso orrore di tutti quelli che sono sottoposti a tortura, le stesse tremende sofferenze di chiunque sia stato flagellato e inchiodato a una croce. Era un uomo come noi, e avrà avuto certamente anche dei bisogni sessuali come noi, affrontandoli però diversamente rispetto a come li affrontano mediamente gli esseri umani, cioè: senza esserne dipendente, ma con una grande libertà interiore, la stessa libertà che mostrava di avere nei confronti del denaro o della fama o della critica dei suoi avversari.
Era un uomo come noi, e quindi subiva anch’egli l’influenza delle idee e della cultura del suo tempo, come noi subiamo quella delle idee e della cultura del nostro. Per queste ragioni egli si attendeva che giungesse ben presto il regno di YHWH, e che di conseguenza il male del mondo venisse spodestato, il che fu, visto a posteriori, uno sbaglio; oppure tendeva a separare la realtà, come gli aveva insegnato la Torà, in due mondi, quello di YHWH e il nostro, un mondo in cui YHWH potesse intervenire a piacimento; o ancora pensava di doversi occupare esclusivamente di Israele, ricredendosi dopo l’incontro con la cananea di Mc 7,24; o non aveva il minimo dubbio che le malattie fossero opera di demoni oltremondani; o ancora concepiva il mondo in senso geocentrico, con il cielo di sopra e il mondo dei morti di sotto. Tutte cose soggette ai condizionamenti del tempo, e niente affatto veritiere, malgrado fossero sue intime convinzioni.
È così che lo vediamo. Ma lui come vedeva se stesso? (...). Ciò che ha davvero detto, e che cosa intendeva nel dirlo, è ancora avvolto nella nebbia. (...). Ciò che possiamo dire è che Gesù non ha mai pensato di essere il Figlio unigenito di Dio, di essere Dio in forma umana. Né lo pensava la cerchia dei suoi discepoli. Solo molto più tardi ha cominciato a pensarlo la Chiesa. “Figlio di Dio”, per lui, non aveva altro significato che quello del puramente monoteistico Antico Testamento. (...).
…ma non solo un uomo come noi
Gli aspetti di normale umanità che abbiamo tratteggiato sopra non spiegano perché Gesù emanasse tanto carisma, un carisma di cui i sinottici hanno offerto un’immagine nella scena mitica della trasfigurazione al monte. In realtà, insomma, non era soltanto un uomo come noi. Camminare sulle acque e sedare la tempesta con una sola parola sono altre immagini usate dagli evangelisti per cercare di trasmettere la dimensione di mistero che si sentiva presente in lui. La domanda che pongono i discepoli sulla barca a tempesta placata – «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono? » (Mc 4,41) – è un riconoscimento indiretto della presenza attiva di Dio che veniva avvertita in lui. Egli parlava e agiva dimostrando un’intimità con il mistero originario che chiamiamo Dio così intensa rispetto al livello medio degli esseri umani da risultarci irraggiungibile. Chi, grazie a questa intimità con Dio, si era sentito toccato e commosso ha cercato di manifestare la propria devozione con i mezzi di cui disponeva, ricorrendo cioè a immagini e formule veterotestamentarie, e in particolare al titolo di Figlio di Dio prediletto. Un Figlio prediletto che si è presto trasformato in unico Figlio e 250 anni dopo, al Concilio di Nicea, in «Figlio unigenito di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio vero (nato) da Dio vero». Il Concilio giunse a questa formula scambiando il linguaggio figurato cultuale vecchio di due secoli, nel quale si rifletteva sotto forma di preghiera l’esperienza della trascendenza umana di Gesù, per linguaggio realistico, riferito dunque alla sua discendenza. La trascendenza umana di Gesù era essenzialmente la sua totale gratuità, che non era che l’intima unità con la gratuità di Dio. Una trascendenza umana tramutatasi in una trascendenza soprannaturale e assoluta, foriera di onnipotenza e dominio. (...).