Boia, aborto e gesti d’amore
CHIARA SARACENO
chi è Chiara SARACENO
La Stampa 4.1.2008
Assassine, anzi boia. Questo sono le donne che abortiscono per chi invoca la moratoria contro l’aborto speculare a quella contro la pena di morte. Ciò non aiuta né a aprire quel dialogo che si dice di volere, né a sensibilizzare le donne perché ripensino alle proprie opzioni di fronte a una gravidanza difficile o non voluta. Per quanta enfasi si ponga sull’umanità della «vita nascente», non può essere equiparata a quella di un essere umano autonomo, ancorché criminale. Innanzitutto perché il suo poter venire al mondo dipende dal legame con il corpo della madre, nonostante l’ecografia produca l’illusione non solo del bambino già compiuto, ma anche autonomo dal corpo materno.
Ha bisogno di un corpo materno (affettivamente e intellettualmente, non solo biologicamente, accogliente) che lo metta al mondo. E anche poi dipende dal lungo, continuo, ripetuto, atto di accoglienza e relazione di chi accetta di farsi genitore. Non c’è vita umana fuori da questa accoglienza. Infatti ci preoccupiamo di togliere ai genitori biologici non adeguatamente accoglienti i bambini che irresponsabilmente hanno messo al mondo, pur sapendo che questi bambini porteranno per sempre il segno di quella non accoglienza.
Gravidanza e maternità non possono essere una condanna inflitta a una donna solo perché un atto sessuale non protetto ha originato un concepimento, come avveniva secoli fa in Italia e Spagna, quando le donne nubili incinte venivano messe sotto sequestro per evitare che abortissero, salvo poi essere obbligate ad abbandonare il neonato. Ci sono molte ragioni per cui una donna decide di non portare avanti una gravidanza. Compito di chi le sta intorno, della società, dello Stato - certo non solo dei consultori - è darle tutti gli strumenti e le risorse per decidere col massimo grado di libertà e consapevolezza possibile. La rassicurazione un po’ ipocrita dei proponenti la moratoria sull’aborto circa la non criminalizzazione di chi comunque decidesse di abortire è tutt’altro che rassicurante. Non solo perché parte dal presupposto che di assassinio si tratti, per quanto depenalizzato; ma perché nella situazione di sospensione delle norme che consentono l’aborto questo potrebbe essere effettuato solo nella clandestinità, come avveniva prima dell’approvazione della legge.
Questa legge, almeno nel Centro-Nord, pur con mezzi insufficienti, funziona molto più di quanto non ammettano i critici. Non è un caso che oggi ricorrano all’aborto prevalentemente le adolescenti e le immigrate, ovvero i due gruppi di donne più vulnerabili. Le prime perché stanno affacciandosi all’attività sessuale e non hanno ancora l’abitudine alla contraccezione regolare. Ma proprio a loro vogliamo imporre una gravidanza a tutti i costi? Le seconde perché, oltre a sperimentare condizioni di disagio, spesso provengono da Paesi ove non vi è un’abitudine alla contraccezione. Con entrambe, quando si presentano per un aborto, i consultori svolgono un lavoro prezioso: informando e stabilendo rapporti di fiducia che alla lunga evitano altri aborti.
Certo, vi è il problema dell’aborto selettivo consentito in linea teorica dallo sviluppo delle conoscenze. Va detto subito che spesso, nel caso di diagnosi prenatale di disabilità o malattia grave, la decisione di abortire può scaturire non da egoismo, o da un (rispettabile) senso d’incapacità a reggere la responsabilità, ma da un gesto d’amore, dal desiderio di non esporre un bambino a gravi sofferenze, di evitargli una condanna a venire al mondo a ogni costo. Ma, anche nel caso si tratti del rifiuto a mettere al mondo un disabile, si può imporre un’accoglienza che non c’è? E cosa sarà del bambino che nascerà in questo rifiuto? Si può, si deve, lavorare nella società e a livello culturale, per migliorare le condizioni di chi vive con disabilità e per riconoscerne tutte le potenzialità e ricchezza umana. Diverso è il caso dell’aborto per evitare la nascita di una femmina. È illegale, almeno nel nostro Paese, anche se possono essere trovati escamotage e medici compiacenti. Si possono stringere le maglie della legge, rafforzare le punizioni. Ma, di nuovo, è a livello delle condizioni di vita e culturali in cui nascono le bambine che occorre soprattutto lavorare, perché la loro vita non si trasformi in una condanna all’ostracismo e alla violenza in culture e famiglie che le considerano esseri umani di seconda o terza classe