di
Gustavo Zagrebelsky
chi è Gustavo
ZAGREBELSKY
In una concezione non dogmatica ma (auto)critica della
democrazia, quale è propria di ogni spirito laico, nessuna decisione presa è,
per ciò stesso, indiscutibile. Il rifiuto della ri-discussione è per ciò
stesso una posizione dogmatica, che può nascondere un eccesso o un difetto di
sicurezza circa le proprie buone ragioni. Questo, in linea di principio,
riguarda dunque anche la legge sull´interruzione volontaria della gravidanza,
"la 194", che pur ha dalla sua due sentenze della Corte costituzionale
e un referendum popolare.
Ma una discussione costruttiva e, mi sia permesso dire, onesta è il contrario
delle parole d´ordine a effetto, che fanno confusione, servono per
"crociate" che finiscono per mettere le persone le une contro le
altre. Lo slogan "moratoria dell´aborto", stabilendo una
"stringente analogia" (cardinal Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra
pena di morte e aborto, accomunati come assassinii legali, ha sì riaperto il
problema, ma in modo tale da riaprire anche uno scontro sociale e culturale che
vedrebbe, nientemeno, schierati i fautori della vita contro i fautori della
morte: i primi, paladini dei valori cristiani; i secondi, intossicati dal
famigerato relativismo etico. Insomma, alle solite, un nuovo fronte di quello
"scontro di civiltà" che, molti insofferenti della difficile
tolleranza, mentre dicono di paventarlo, lo auspicano.
Siamo di fronte, come si è detto, a una "iniziativa amica delle
donne"? Vediamo. La questione aborto è un intreccio di violenze.
Innanzitutto, indubitabilmente, la violenza sull´essere umano in formazione,
privato del diritto alla vita.
Ma, in numerose circostanze, ci può essere violenza nella gravidanza stessa,
questa volta contro la donna, quando la salute ne sia minacciata, non solo nel
corpo ma anche nella mente, da sentimenti di colpa o di sopraffazione,
solitudine, indigenza, abbandono. La donna incinta, nelle condizioni normali, è
l´orgoglio, onorato e protetto, della società di cui è parte; ma, nelle
situazioni anormali, può diventarne la vergogna, il peso o la pietra dello
scandalo, scartata e male o punto tollerata. D´altra parte, non solo la
gravidanza, ma l´aborto stesso, percepito come via d´uscita da situazioni di
necessità senza altro sbocco, si traduce in violenza anche verso la donna,
costretta a privarsi del suo diritto alla maternità. C´è poi un potenziale di
somma violenza nella capacità limitata delle società umane ad accogliere nuovi
nati. La naturale finitezza della terra e delle sue risorse sta contro la
pressione demografica crescente e la durata della vita umana. L´iniqua
ripartizione dei beni della terra tra i popoli, poi, induce soprattutto le
nazioni più povere a politiche pubbliche di limitazione della natalità che si
avvalgono, come loro mezzo, dell´aborto.
Violenze su violenze d´ogni origine, dunque: violenza della natura sulle società;
delle società sulla donna; della donna su se stessa e sull´essere indifeso ch´essa
porta in sé. E´ certamente una tragica condizione quella in cui il
concepimento di un essere umano porta con sé un tale potenziale di violenza.
Noi forse comprendiamo così il senso profondo della maledizione di Dio: «Moltiplicherò
i tuoi dolori e le tue gravidanze» (Gen. 3, 22). Si potrebbe dire che l´aborto,
nella maggior parte dei casi, è violenza di deboli su più deboli, provocata da
una violenza anteriore. Ma questa è la condizione umana, fino a quando essa
patisce la crudeltà della natura e l´ingiustizia della società; una
condizione che nessuna minaccia di pene anche severissime, con riguardo all´ultimo
anello della catena, quello che unisce la donna al concepito, ha mai potuto
cambiare, ma ha sempre e solo sospinto nella clandestinità, con un ulteriore
carico di umiliazione e violenza, fisica e morale.
In questo quadro, che molte donne conoscono bene, che cosa significa la parola
moratoria? Dove si inserirebbe, in questa catena di violenza? La domanda è
capitale per capire di che cosa parliamo.
Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l´aborto
come strumento di controllo demografico e di selezione "di genere". Un
celebre scritto del premio Nobel Amartya Sen, pubblicato sulla New York Review
of Books del
E diverso, in riferimento alle società dove l´aborto non è imposto, ma è,
sotto certe condizioni, ammesso. "Moratoria" non può significare che
divieto. Per noi, sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che
abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiando severe
sanzioni. Questo esito, per ora, non è dichiarato. I tempi paiono non
consentirlo. Ci si limita a chiedere la "revisione" della legge che
"regola" l´aborto. Ma l´obbiettivo è quello, come la
"stringente analogia" con l´abolizione della pena di morte mostra e
come del resto dice il card. Bagnasco: «Non ci può mai essere alcuna legge
giusta che regoli l´aborto».
Qual è il punto della catena di violenza che la "moratoria" mira a
colpire? E´ l´ultimo: quello che drammaticamente mette a tu per tu la donna e
il concepito. Isolando il dramma dal contesto di tutte le altre violenze, è
facile dire: l´inerme, il fragile, l´incolpevole deve essere protetto dalla
legge, contro l´arbitrio del più forte. Ma la donna, a sua volta, è soggetto
debole rispetto a tante altre violenze psicofisiche, morali, sociali,
economiche, incombenti su di lei. La legge che vietasse l´aborto finirebbe per
caricarla integralmente dell´intero peso della violenza di cui la società è
intrisa: un peso in molti casi schiacciante, giustificabile solo agli occhi di
chi concepisce la maternità come preminente funzione biologico-sociale che ha
nell´apparato riproduttivo della donna il suo organo: «Moltiplicherò i tuoi
dolori e le tue gravidanze», appunto. Si comprende, così, che la questione
dell´aborto ha sullo sfondo la concezione primaria delle donne come persone
oppure come strumenti di riproduzione. E si comprende altresì la ribellione
femminile a questa visione della loro sessualità come ufficio sociale.
«La condizione della donna gestante è del tutto particolare» e non è giusto
gravarla di tanto peso, ha detto
Le posizioni di principio sono incompatibili, oggi si dice "non
negoziabili": l´autodeterminazione della donna contro l´imposizione dello
Stato; la procreazione come evento di rilevanza principalmente privata o
principalmente pubblica; la concezione del feto come soggetto non ancora formato
o come persona umana in formazione; la legge come strumento di mitigazione dei
disastri sociali (l´aborto clandestino) o come testimonianza di una visione
morale della vita. Alla fine, il vero contrasto è tra una concezione della
società incentrata sui suoi componenti, i loro diritti e le loro responsabilità,
e un´altra concezione incentrata sull´organismo sociale, i cui componenti sono
organi gravati di doveri, anche estremi. Si vede il dissidio, per così dire,
allo stato puro nel caso della scelta tra la vita della madre e quella del feto,
quando non possibile salvare e l´una e l´altra: la sensibilità non cattolica
più diffusa dice: prevalga la vita della donna, persona in atto; la morale
cattolica dice: prevalga la vita del nascituro, persona solo in potenza.
Secondo le circostanze. Sul terreno delle circostanze, a differenza di quello
dei principi, è possibile lavorare pragmaticamente per ridurre, nei limiti del
possibile, le violenze generatrici di aborto. Educazione sessuale, per prevenire
le gravidanze che non si potranno poi sostenere; giustizia sociale, per
assicurare alle giovani coppie la tranquillità verso un avvenire in cui la
nascita d´un figlio non sia un dramma; occupazione e stabilità nel lavoro, per
evitare alla donna il ricatto del licenziamento; servizi sociali e sostegni
economici a favore della libertà dei genitori indigenti. Dalla mancanza di
tutto questo dipende l´aborto "di necessità", che – si dirà - è
però una parte soltanto del problema. Ma l´altra parte, l´aborto "per
leggerezza", troverà comunque le sue vie di fatto per chi ha i mezzi di
procurarselo, indipendentemente dalla legge. In ogni caso, non è accettabile
che di necessità e leggerezza si faccia un unico fascio a danno dei più
deboli, spinti dalla necessità, e li si metta sotto la cappa inquisitoriale
della criminalizzazione e delle intimidazioni morali, come l´equiparazione dell´aborto
all´omicidio e della donna all´omicida. La sorte dei concepiti non voluti si
consumerà ugualmente, nel confort delle cliniche private o nella solitudine,
nell´umiliazione e nel rischio per l´incolumità. L´esito del referendum del
1981 che, a grande maggioranza (il 68 %) ha confermato "la 194",
dipese di certo dal ricordo ancora vivo di ciò che era stato l´aborto
clandestino. Ci si può augurare che non se ne debba rifare l´esperienza, per
ravvivare il ricordo.